Continua dalla Prima parte
Siamo stati fortunati perché il nostro bambino disturbato ha avuto una camera sua. Se per vostro figlio non è così, dovrebbe comunque esserci in casa un qualche posto che sia soltanto suo. A volte Jimmy faceva cose che non erano pericolose nè dannose, ma che ci irritavano e ci imbarazzavano come piangere forte, urlare, mettersi le dita nel naso, masturbarsi o altro. Nella sua stanza o nel suo spazio privato poteva continuare nelle sue occupazioni e noi ci sentivamo meglio perché non ci riguardavano direttamente. Abbiamo cercato di ricordare e anche di imparare che ogni essere umano appartiene prima di tutto a se stesso; mente e corpo di una persona sono sempre di sua proprietà. Nello spostare Jimmy nel suo spazio per determinate attività fu difficile sopratutto fare in modo che vi rimanesse. Ci rendemmo conto che chiudere la porta a chiave, legarlo o ricorrere ad altri mezzi coercitivi del genere, di solito è inutile e dannoso. Dovevamo essere pronti a far tornare Jimmy ogni volta nel suo spazio con le stesse parole, sempre con le stesse parole. Un mezzo realmente efficace per farlo restare nel posto prescelto fu quello di costruire delle barriere; non chiudendolo a chiave, quindi, o imprigionandolo, ma comunque ponendogli dei limiti fisici. A questo scopo vanno senz’altro bene le porte di cui si può chiudere la parte inferiore, lasciando aperta quella superiore. Sono utilissimi i cancelli e le barriere allungabili che si usano per i bambini che non camminano ancora. Funzionano i divisori, gli elementi del mobilio, a volte solo un pezzo di corda che racchiuda una zona specifica.
Saper evitare i motivi di agitazione
A Jimmy non piacevano le case in cui si trovava bloccato in uno spazio piccolo con molte persone a ronzargli intorno e a dirgli «non toccare questo e non toccare quello». Frequentavamo questo tipo di case solo quando i bambini non dovevano venire con noi. Non tenevamo Jimmy segregato perché, separato dagli altri, non avrebbe mai potuto imparare ad adattarsi e a far fronte alle situazioni. Nella pratica, in casa nostra o in quella di amici disponibili e comprensivi Jimmy apprese gli aspetti gradevoli del far visita a qualcuno. Quando non sopportava le attese, sceglievamo un ristorante in cui potesse andarsene in giro mentre aspettavamo che ci servissero. Quando le sue urla erano ancora un problema, sceglie vamo un posto rumoroso. Capivamo che l’atmosfera informale di una trattoria di tipo famigliare era la più adatta. C’era sempre tanto chiasso e c’era un mucchio di bambini nei posti di ristoro veloce per automobilisti. Erano i primi posti che cercavamo se il clima lo permetteva e se c’erano i tavoli all’esterno. In seguito potemmo fermarci nei comuni ristoranti dei caselli o dei parcheggi. Nei negozi Jimmy era molto insofferente. Così, quando doveva venire con noi, ne sceglievamo uno con i carrelli e Jimmy poteva salirci sopra mentre noi ci occupavamo delle nostre spese.
Tentativi ed errori
In genere non abbiamo mai preteso che Jimmy si comportasse in un certo modo per obiettivi e desideri nostri. Non ha mai frequentato chiese perché lì non poteva girare liberamente o fare rumore. Ha ricevuto il battesimo privatamente, potendo così esprimere con libertà il suo disagio per l’acqua fredda. A casa, dopo che ha finito di mangiare non gli viene chiesto di restare a tavola. Con il tempo siamo diventati abili nell’evitare tutto ciò che gli procura ansia e agitazione. Solo attraverso tentativi ed errori, cercando di metterci in sintonia con la sua sensibilità, siamo riusciti a controllare queste sue reazioni. È capitato che sottovalutassimo qualche situazione, ma siamo riusciti più spesso ad evitare piuttosto che a calmare esplosioni di collera e frustrazioni.
Parlare e parlare …
Si chiede sempre di più ai genitori di parlare ai figli che non possono parlare. Fu difficile farlo e continuare a farlo, perché Jimmy non rispondeva. È molto importante quello che si dice. Non usavamo qualche commento frettoloso, ma cercavamo con frasi semplici di descrivere quello che Jimmy stava facendo, quello che sembrava il suo stato d’animo, quello che sembrava provare. Se Jimmy si faceva cadere un libro sui piedi e poi lo prendeva e lo scagliava via, dicevamo: «Jimmy si è fatto cadere il libro sui piedi. I piedi di Jimmy fanno male. Jimmy è arrabbiato con il libro. Jimmy vuol far male al libro. Jimmy tira il libro perché è arrabbiato». Cosi Jimmy sentiva tradotti in parole i suoi sentimenti e gesti. Dopo molte situazioni di questo tipo cominciò a capire il dolore e l’ira che esplodevano in lui all’improvviso. Usammo spesso questo procedimento. Jimmy andava in collera perché non poteva comunicare un’azione che desiderava compiere. La sua collera cresceva fino a sommergerlo completamente. L’abisso in cui precipitava era un’esperienza terribile che annullava qualsiasi legame con la realtà. Parole adeguate e ripetute lo aiutavano a comprendere questo torrente di emozioni. «Jimmy è arrabbiato con il suo piede». «Jimmy è fuori di sé per mamma». «Jimmy è in collera con papà». «Mamma è in collera con papà». «Papà è in collera con mamma».
Offrire rassicurazione
Scoprimmo che era necessario rassicurare Jimmy sul fatto che il sentimento di rabbia è giustificabile e comune a tutti. Glielo ripetevamo. Lo mettevamo in parole sfruttando ogni occasione. Talvolta era difficile. Descrivere quella situazione nel momento stesso in cui si verificava significava spesso rinunciare a qualsiasi tatto. Era difficile per me dire «Papà è in collera con Jimmy perché papà è stanco» oppure «Papà non capisce». Quando sbagliavamo cercavamo di spiegare a Jimmy anche questo. «Mamma è inciampata nel piede di Jimmy. A mamma dispiace. Jimmy è arrabbiato con mamma. A mamma dispiace di aver fatto male al piede di Jimmy». I temporali di solito lo terrorizzavano. Lo aiutammo indicandogli la luce dei lampi e dicendo subito «Adesso c’è il tuono».
Coerenza di parole e azioni
Nell’insegnare a Jimmy a vivere rispettando alcune regole essenziali ci siamo ricordati che si possono e si devono usare le parole come strumenti. Per la nostra figlia non-disabile, le azioni degli adulti erano talvolta difficili da capire senza le parole. Per Jimmy invece tutte le azioni dovevano essere accompagnate da parole e tutte le parole da azioni coerenti finché non avesse sviluppato una comprensione delle sole parole. Nel nostro procedimento di disciplina dire «No» ad un suo comportamento e lasciarlo poi libero di continuare quell’azione non faceva che indebolire il potere della parola pronunciata.
A Jimmy era indispensabile il rinforzo dell’azione per sperimentare che la parola aveva valore ed era di per sé strumento di disciplina e di comunicazione pieno di significato.
Jimmy non era per niente consapevole dei rischi, nè per sé, nè per gli altri. Molte volte soltanto i nostri divieti poterono evitare un terribile incidente. E duro insegnare ad un bambino disturbato, e la parola «No» deve essere rinforzata spesso dall’azione per un tempo molto lungo prima di essere capita.
Aiutarlo a risolvere i suoi problemi
Il bambino dovrebbe aiutare a risolvere i problemi che crea. Quando Jimmy rovesciava il vaso di fiori, gli prendevamo le mani e lo guidavamo nei movimenti per mettere a posto, mentre parlavamo di quello che stavamo facendo. Gli dicevamo che aveva rovesciato i fiori e che ora doveva riordinare tutto.
Questo guidava razione al suo fine. Durante un certo periodo Jimmy imparò la sequenza causa-effetto. Iniziò ad apprendere quale parte lui avesse in un’azione che creava una situazione problematica e le conseguenze di tale situazione.
Fu Jimmy ad insegnare a noi come dargli gioia. Volevamo scoprire i modi di ricompensarlo quando si comportava bene. Fu difficilissimo, perché non provava alcun interesse per i giocattoli, mangiava soltanto panini con il burro di arachidi e non beveva che latte e succo di frutta. Una dieta così limitata non ci consentiva di considerare cibi e bevande mezzi per lui significativi di un cambiamento positivo nel comportamento. Fin da piccolino amava un gioco con le dita che finiva con un solletico al mento. È difficilissimo non ridere con un bambino allegro e così cominciavamo tutti quanti a ridere insieme. Questa divenne la sua ricompensa e anche adesso ogni notte abbiamo le nostre sedute di solletico al mento.
Ridere insieme è stata una grande terapia per tutti noi. E come se Jimmy abbia avuto difficoltà a raggiungere la realtà finché essa non è diventata un posto felice.
Ricapitolando, le domande importanti che ci siamo posti e ci poniamo riguardo agli obiettivi di disciplina sono:
- Quanto è importante questo comportamento che sto esigendo da mio figlio?
- A che cosa servirà la sua obbedienza alle mie richieste?
- La mia richiesta vuole salvare le apparenze, darmi soddisfazione, o serve alla sicurezza di mio figlio?
- Questa regola può essere rinforzata tutte le volte?
- Questa regola aiuta mio figlio a crescere e svilupparsi?
- Questa regola soddisferà tutta la famiglia, in particolare il bambino?
Spesso ci siamo domandati se avremmo avuto sufficiente pazienza per resistere a nostro figlio. In realtà lo abbiamo scoperto quando abbiamo raggiunto dei precisi risultati.
– Malinda S. Tomaro
The exceptional Parent. Voi. I N°6 1976 da « Counseling Parents of Exceptional Children» pag. 119 122.
Traduzione di Elisabetta Comand
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.44, 1993
Sommario
Editoriale
Segni di speranza di M. Bertolini
Speciale: Segni di speranza
Florent nella scuola italiana di M. C. Chivot
Costruire la capacità di sperare (in un ospedale psichiatrico) di N. Livi
Due piccole isole di luce di N. Schulthes
La fede si vive: così si impara di S. Sciascia
Dare loro una vita normale di A. Beretta
Imparando a vivere bene con Jimmy - 2° partedi M. S. Tomaro
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Proviamo un'altra volta: Sesso e affetto
Libri
È nato un bambino Down
Appuntamento con maria maddalena, E. Marie