Tutti i genitori con figli handicappati sanno per esperienza cos’è la solitudine.
Al trauma causato dalla scoperta dell’handicap del proprio figlio si aggiunge subito il senso di una rottura, di una separazione dagli “altri”.
Solitudine che padre o madre possono sentire nella propria famiglia se l’altro coniuge si rifiuta di ammettere l’handicap del bambino o quando uno dei due, ad esempio, per motivi più personali che educativi vuole sistemarlo in un istituto.
Solitudine possono provare i genitori a contatto con quelli ai quali è necessario ricorrere e nei quali si pone ogni speranza: medici, specialisti, educatori che, a volte, si meravigliano che il bambino sia stato chiamato all’esistenza, tenuto conte dei rischi incorsi, e fanno allusione all’aborto come alla soluzione cui si sarebbe dovuto ricorrere. E questo in nome di una morale sociale di fronte alla quale le convinzioni religiose dovrebbero inchinarsi.
La sentono tra le persone vicine, quelle dalle quali si sperava naturale trovare un appoggio.
Ma sono, talvolta, le persone della strada, a infliggere le ferite più vive, con commenti sbagliati e a volte crudeli, o con gesti o sguardi maldestri e impacciati.
Indifferenza e cinismo non sono forse conseguenze dello choc che provoca la vista di un handicappato così come lo sono le reazioni incoscienti suscitate dalla sua presenza?
Alcuni si rifugeranno nell’indifferenza, minimizzando il peso della prova subita dal bambino e dai suoi, per evitare in ogni modo e ad ogni costo di esserne toccati, per non sentirsi coinvolti.
Altri si sentiranno offesi per il posto dato alle persone handicappate, per gli sforzi che esse impongono, per il peso che la società deve accollarsi per loro.
Ma la reazione più dolorosa per i genitori e per il bambino stesso non è forse quella di fronte a un certo tipo di sentimentalismo: di chi si senta male davanti a “tale” spettacolo, di chi si impietosisce in modo maldestro con una sfumatura di superiorità e di rimprovero?
Al contrario non possono immaginare la ricchezza del loro contributo quelle persone che, senza essere personalmente implicati, danno una mano alle famiglie di figli handicappati. Non sanno quale effetto può fare, su genitori colpiti in quanto hanno di più caro, il tatto e la delicatezza di chi si avvicina in punta di piedi. Quella mamma con i figli già grandi che offre due pomeriggi la settimana per dare una mano; quella ragazza che ogni giovedì va a trovare la loro figliola che non esce mai di casa… hanno contribuito a far superare ai genitori dell’handicappato la tentazione latente di rifiuto o di super-protezione.
In altri casi la serenità e la generosità di alcuni amici hanno permesso che i genitori si dedicassero con maggiore impegno ai tentativi educativi, necessari, ma quanto faticosi.
Il sostegno di chi è vicino è essenziale, Una visita ogni tanto, una telefonata per chiedere notizie e altri piccoli gesti avranno speso maggior effetto di un aiuto materiale.
Quel sostegno sarò molto sentito anche dai fratelli e dalle sorelle del bambino handicappato. Fin dalla più tenera età essi sanno distinguere con grande perspicacia le persone che hanno un vero interesse per il fratello o la sorella handicappati.
Quanto agli handicappati stessi, hanno un gran bisogno che altre persone si occupino di loro, oltre ai parenti e agli educatori. E non hanno essi forse, nel loro modo di essere “poveri”, molto da insegnare “perché è ai loro simili che appartiene il Regno di Dio?” (Mc 19-14).
Chi ha cominciato ad accostarsi a loro con spirito di infanzia sa quanta ricchezza ne ha ricevuto. Ed è anche tutta la famiglia della persona handicappata che in certo modo può e deve offrire questo contributo agli altri.
Noi genitori di handicappati dobbiamo essere coscienti che il dialogo che chiediamo alla società, non deve essere a senso unico; che se dobbiamo vincere la tentazione del rifiuto verso nostro figlio, dobbiamo anche restare aperti ai problemi degli altri, talvolta più dolorosi dei nostri.
Siamo spesso inclini a fare della nostra prova un’assoluta e, se lottiamo per i nostri figli handicappati, tendiamo sistematicamente a mettere questo problema in prima fila nelle urgenze sociali.
Anche se questo impulso è per noi primordiale, riguardando il nostro “prossimo più prossimo”, non dobbiamo forse più degli altri compatire le prove di quelli che il Signore mette sulla nostra strada, aiutarli a superare il momento della rivolta, offrire loro quel senso della vita che in nostro figliolo, con la sua sola presenza, ci insegna?
Cioè il senso di una vita consacrata non all’inseguimento illusorio di una felicità individuale così propagandata dalla civiltà contemporanea, ma alla ricerca in comune, passo passo, della luce attraverso le tenebre.
di Jacqueline e Henri Faivre, 1983
Questo articolo è tratto da:
Ombre e Luci n. 1, 1983
SOMMARIO
Editoriale
Ombre e Luci? di Marie Hélène Mathieu
Editoriale n.1
Articoli
L’esperienza della solitudine di Jacqueline e Henri Faivre
Difficoltà loro o nostra? di Henri Bissonier
Ti aspetto sempre di Jean Vanier
Il Chicco: una casa per Fabio e Maria di Anna Da e Guenda Malvezzi
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Libri
Il dolore innocente - Un handicappato nella mia famiglia, G. Hourdin
Darti la vita, J. Carrette