L’esperienza che ho della persona malata mentale è certo incompleta ma è reale. Da molto tempo incontro genitori che hanno un figlio malato mentale e che cercano per lui un posto d’accoglienza. D’altro canto, un certo numero di giovani, con l’equilibrio psichico perturbato, vengono all’Arche sparando di trovare rifugio in una comunità calorosa. Infine, molti uomini e donne che accogliamo come handicappati mentali, manifestano anche gravi turbe della personalità. Fin da piccoli possono aver presentato segni di psicosi infantile di cui restano tracce.
Altri, vittime di traumi di rifiuto, aggiungono sintomi di nevrosi più o meno gravi al loro handicap mentale.
Per formazione, non sono né psichiatra né psicologo. Le mie riflessioni possono essere solo quelle di un educatore che incontra continuamente la sofferenza di quelli che soffrono e fanno soffrire gli altri. Mi sento coinvolto profondamente con questi uomini e donne che chiamiamo «malati mentali» i quali hanno un bisogno immenso di luoghi dove vivere o lavorare, dove siano accolti con rispetto. La società e noi tutti dobbiamo trovare per loro dei veri amici che sappiano aiutarli a trovare o a mantenere un senso alla vita, una speranza.
Una malattia di tipo speciale
Se è assolutamente necessario che la persona colpita da malattia mentale non consideri il suo stato come inconfessabile — non è una vergogna consultare uno psichiatra —, bisogna dire tuttavia che si tratta di una malattia di un tipo speciale, che riguarda il modo con cui la persona accoglie la realtà e come reagisce di fronte ad essa.
La paranoia, ad esempio, è una malattia che spinge a sentirsi continuamente braccati e perseguitati, a non vedere più la realtà com’è, a non costruire più su basi oggettive.
Per alcuni la realtà è troppo insopportabile: un bambino, abbandonato dai genitori in ospedale, non può accettare di trovarsi completamente solo, dove nessuno gli dica: «Sei importante!». Come può avere un’immagine positiva di se stesso se è trattato con disprezzo a causa di un handicap o di una malattia? Se la realtà appare infernale, la persona si rifugia nel sogno o nell’immaginario. In fondo, a volte, tutti ci comportiamo così. Quando le cose vanno troppo male, troviamo dei compensi nei sogni, non quelli della notte, ma i sogni del giorno. La persona malata mentale è chi si è bloccato nel suo sogno. In certi casi, la personalità è completamente scossa, non ha più presa sul reale. In altri casi ha la coscienza delle sue difficoltà, ma non riesce ad adattarsi alla vita sociale quotidiana. Questi blocchi richiedono, quasi sempre, l’intervento di uno psichiatra.
Non bisogna confondere, diceva il Dott. Lamarche, le «crisi d’esistenza» e le crisi patologiche, che sono blocchi permanenti. La Dott. Terruwe, psichiatra olandese, pensa che, se al tempo di Freud molte nevrosi erano il risultato di un’educazione repressiva, oggi provengono soprattutto da una non conferma o da una insicurezza profonda.
Nella sua pratica psichiatrica, ha incontrato molte persone con sintomi «schizoidi» ( termine che esprime affinità più o meno stretta con la schizofrenia, usato come attributo del temperamento e della personalità), che in realtà erano solo persone fragili, in una confusione totale, profondamente decentrate e spersonalizzate, che avevano perduto il senso della propria identità, senza speranza e senza motivazione.
Lo sappiamo bene; quando siamo motivati, abbiamo voglia di lavorare, di iniziare cose nuove. Le energie vitali stimolano la motivazione e viceversa. Quando, al contrario, siamo stati spezzati o traumatizzati da situazioni di contraddizione senza uscita, rischiamo di perdere il gusto della vita. Abbiamo bisogno allora di una persona che condivida le nostre sofferenze e le nostre confusioni, che ci capisca e ci rassicuri. Così, poco per volta, riprendiamo fiducia nella vita e in noi stessi. Se non troviamo questo accompagnatore, allora c’è un grave rischio di blocco nella malattia. Freud pensava che molti turbamenti provengono dall’oppressione del «padre». Nel nostro tempo, saremmo vittime piuttosto delle dimissioni dei genitori e soprattutto di quelle del padre. Per la dott. Terruwe, molti di quanti presentano sintomi «schizoidi», hanno bisogno soprattutto di qualcuno che li rassicuri, che li aiuti a scoprire la propria personalità e i propri doni.
L’errore da evitare nei confronti di qualcuno che attraversa una «crisi esistenziale», in cui si sente solo, inutile, incapace, è di sottoporlo a cura psichiatrica. Se, sentendosi già inutile, ha anche l’impressione di essere un malato mentale, rischia di perdere ancor più fiducia in se stesso e il suo stato si aggraverà. Invece ha bisogno di un accompagnatore, anche uno psichiatra, che gli dica: «Non sei malato; sei semplicemente in angoscia e hai perduto fiducia in te stesso. Cammineremo un po’ insieme e posso assicurarti che riprenderai il lavoro, riprenderai vita»
Trovare una giusta distanza
È difficile per l’accompagnatore trovare la giusta distanza nella relazione con chi è mentalmente fragile o malato. Questi, spesso, non ha avuto un rapporto privilegiato con i genitori ed è quindi in cerca di una relazione «fusionale», ma allo stesso tempo la teme perché ha avuto brutte esperienze. Infatti, quando la relazione diventa troppo stretta, la persona fragile diventa troppo dipendente ed esigente; poiché quello o quella che egli ama ha paura o fugge, scopre che questa relazione è pericolosa perché ad un certo momento provoca il rifiuto. L’accompagnatore deve quindi conservare una giusta distanza nella relazione per evitare di provocare attesa o delusione. È per questo che i professionisti chiedono un onorario e fissano un tempo determinato di consultazione, affinché il malato non instauri una relazione di dipendenza troppo stretta fin dall’inizio e sappia i limiti della situazione; non potrà così trasferire il suo desiderio di avere un padre o una madre sullo psichiatra o sullo psicologo.
L’accompagnatore non professionista deve, anche lui, fissare dei limiti nella relazione, impegnarsi secondo le sue responsabilità, spiegare quello che può dare e quello che non può dare. Col tempo, da una mutua confidenza e da un qualche appagamento, potranno nascere i primi germogli.
Senso di colpa dei genitori
Un aspetto inquietante nel campo della malattia mentale, è il modo con cui alcuni professionisti colpevolizzano i genitori. Questi ultimi sono allora completamente disorientati: perdono di colpo ogni spontaneità col figlio; si analizzano e si accusano in continuazione; passano presto dalla tenerezza sentimentale alla irritazione e alla paura. Lo sappiano i genitori: se i loro figli sono malati mentalmente è perché c’era un terreno favorevole alla malattia. I loro atteggiamenti maldestri, le contraddizioni nella relazione o, talvolta, il rifiuto incosciente hanno potuto scatenare o aggravare la situazione, senza tuttavia esserne la causa prima.
È vero che qualche volta il malato mentale non riesce a staccarsi dai genitori a causa di una dipendenza troppo forte. È come intrappolato, imprigionato. Si aspetta troppo dai genitori che non possono rispondere alle sue richieste. Così nascono conflitti insolubili. Se il figlio lascia i genitori, ha l’impressione di essere ancora più rifiutato. È un circolo vizioso.
Ho incontrato molte situazioni dolorose con nodi così complessi che non erano possibili soluzioni chiare. Ma in tutti questi casi, i genitori avevano soprattutto bisogno di essere sostenuti, di essere aiutati a trovare l’atteggiamento giusto, di non essere giudicati o condannati.
La persona che sia «malata mentale» o che si trovi in «crisi esistenziale» è soprattutto una persona che soffre. È spezzata in se stessa e ha bisogno di molto rispetto e di compassione. Ma, ahimè, con i suoi strani comportamenti, le sue richieste insaziabili, provoca la paura e l’inquietudine di chi le è attorno. Lei, che ha tanto bisogno di accoglienza, di comprensione, riceve, di frequente, solo l’opposto.
Il malato mentale è attirato di frequente, particolarmente dalle comunità cristiane, soprattutto se calorose, come ad esempio le comunità carismatiche. Spesso cerca soccorso e appoggio in ciò che è religioso. Ma molti psichiatri hanno paura della religione, perché sembra loro mitica, atta a simulare illusioni. Dal canto loro, molti sacerdoti hanno paura della persona malata mentale, della sua fertile immaginazione che può portarla facilmente ad una «falsa mistica». Ci sono poi cristiani troppo «semplicisti» che credono che una calorosa accoglienza e la preghiera possano guarire tutto. Non vogliono ammettere che la malattia esiste e richiede competenza.
L’attrazione che molti malati mentali provano per la religione è reale; manifestazione di questo è per esempio, l’abuso delle medaglie e delle statue che talvolta diventa una forma di superstizione ossessiva. Ma l’esagerazione è forse solo nella forma e nel mezzo espressivo. Non bisogna rifiutare tutto a priori di queste manifestazioni, che anzi possono essere il punto di partenza per un dialogo. Infatti, spesso si tratta di un desiderio autentico.
La vera religione è profondamente realista e può essere profondamente terapeutica. Partendo dalla parola di Dio, dalla preghiera, si può aiutare la persona malata mentale a incontrare il proprio vicino, a compiere gesti di servizio e di bontà nei suoi confronti. Quando essa scopre nella fede, che è amata da Dio, può riprendere un po’ di fiducia in se stessa. Quando incontra un sacerdote pieno di compassione e competente che le dà il sacramento della riconciliazione, con il perdono di Gesù può trovare un sollievo alle ossessioni scrupolose e ai sensi di colpa, anche se resta malata.
Ma il sacerdote non deve essere solo. La persona malata rischia di chiedergli troppo come tempo di presenza, come investimento personale, mentre ha bisogno di una comunità attorno a sé che crei nella relazione, dei limiti che saranno ben accettati.
Attraverso la passione di Gesù Cristo, la persona malata mentale può scoprire un senso alle proprie sofferenze e capire, forse, in un lampo di coscienza, come dire «sì» a Dio. E Dio, nel suo amore, al di là delle allucinazioni, delle ossessioni, può incontrare colui che è malato mentalmente nel fondo della sua coscienza.
In questo c’è un mistero di grazia.
– Jean Vanier, 1988
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.21, 1988
Sommario
Articoli
Saverio, nostro fratello di Mario Damiani
La malattia mentale di M.E.
Bloccati nel silenzio di Jean Vanier
Addomesticare la malattia di J.P. Walcke
Era la mamma ma anche un’altra persona di C.D.
Dove vivono, come vivono
Villa S. Giovanni di Dio di Nicole Shulthes
Comunità terapeutica di Primavalle di Sergio Sciascia
Risultato dell’inchiesta "Aiutateci a migliorare Ombre e Luci"
Cosa ha detto Papa Wojtyla sull'epilessia di Redazione