Questo articolo fa parte dello Speciale Fede e Luce anatomia di una comunità di incontro.

Spesso percorriamo la strada della vita come i passanti frettolosi che camminano sui marciapiedi delle nostre grandi città… Ognuno per conto suo. Ci si incrocia, ma non ci si incontra.

Si tratta solo di accogliere l’altro? No. È necessario anche lasciarsi accogliere da lui. Vi è un qualcosa di un po’ paternalistico nel considerare l’accoglienza in modo troppo unilaterale; ci si china sull’altro “con una delicatezza di cui, soli, si conosce il segreto”, lo si ascolta “con molta pazienza”…
Non si tratta di accogliere per accogliere, ma di accogliere una persona rispettando ed amando ciò che ella ha di unico e di fragile.

Recentemente ho avuto l’occasione di andare in Guyana. Un giorno nella foresta ho visto una scena impressionante: un ponte metallico, nuovo, adagiato sull’erba, in piena foresta, presso la riva di un fiume. Chiesta informazione, ho saputo che si trattava di un ponte prefabbricato proveniente da un’industria olandese, ma il terreno dell’Amazzonia è troppo molle per sopportarne il peso.
Non è esattamente ciò che a volte accade? Diamo tale importanza all’accoglienza senza verificare se la persona o la comunità possono sopportarne il peso.

D’accordo a volte c’è bisogno di insistenza e di perseveranza per raggiungere l’altro nella solitudine che lo attornia da lunghi anni. Ma l’incontro comincia quando, invece di volerlo accogliere ad ogni costo, lo lasciamo venire avanti.

Penso alla nostra gioia ogni volta che, durante un incontro di Fede e Luce, vediamo arrivare una nuova famiglia. Dopo tante visite in casa e tanti inviti, li abbiamo invitati ancora una volta, ma senza sperarci troppo… Quando sono essi ad arrivare così, l’incontro diventa possibile.

Incontrare

L’incontro fa paura, perché non si sa dove ci porterà. Non si possono mai prevedere tutte le conseguenze. L’incontro mi obbliga a lasciare la mia sicurezza per mettermi su un cammino che appartiene all’altro tanto quanto a me. Allora ho paura di restare deluso, ho paura di soffrire, ho paura di sbagliare strada, o di andare troppo lontano nella giusta direzione. Ho paura…..

È più facile fingere. Per evitare di incontrare l’altro, ci si fabbrica un incontro su misura:

  • si incontra l’altro avvalendosi di terze persone: “Dopo tutto ci sono gli specialisti!”
  • si incontra l’altro per mezzo di un libretto di assegni. Ho amici che sarebbero pronti a firmare assegni per tutti gli “handicappati” del mondo, pur di evitare di incontrarne uno solo.
  • si incontra l’altro a scadenze di calendario, e si passa dalla “giornata annuale degli handicappati” a “giornata annuale degli handicappati” senza domandarsi cosa succede di loro tutto il resto del tempo.
  • si incontra l’altro attraverso la Buona Azione e ci si chiede cosa si può fare PER lui, mentre bisognerebbe scoprire cosa si può fare CON lui.
  • si incontra l’altro servendosi delle strutture di una organizzazione e si lascia che l’O.N.U. organizzi l’Anno Mondiale per la Persona Handicappata (1980), senza aprire gli occhi sulla realtà del nostro quartiere.
  • si incontra l’altro dietro lo schermo della religione, ogni volta che il silenzio dei crocifissi delle nostre chiese ci impedisce di ascoltare il grido di coloro che – oggi – sono crocifissi.

Nessuno di noi è immune da questi atteggiamenti. Essi traducono la nostra paura dell’altro, ma anche la paura di noi stessi. Paura di non essere compreso, di non essere all’altezza, paura dello sconosciuto. Si apre facilmente la porta a chi ci assomiglia, più difficilmente a chi è diverso da noi.

Mi è già capitato di dover rifiutare di entrare in casa di persone che (me lo hanno confessato) mi avevano chiuso la porta perché avevano visto in me lo “straniero”, e me l’hanno aperta come per incantesimo appena avevano scoperto che ero prete.
È difficile accettare che l’altro sia semplicemente diverso da noi! Alla base di ogni razzismo, di ogni settarismo, di ogni odio e di ogni violenza c’è il rifiuto dell’altro diverso da me.

Per incontrare l’altro bisogna rinunciare al comparativo. Finché io sono “superiore” o “normale”, lascio capire che l’altro è “inferiore” o “anormale”. E se un giorno mi metto in testa che mi dà fastidio o che mi costa caro, sarò tentato di sopprimerlo.

Il più delle volte incontriamo persone che ci somigliano, che hanno le nostre stesse idee, che ci fanno dei complimenti (e per dare peso a questi complimenti diciamo che sono persone “intelligenti”). Ci fabbrichiamo così un piccolo universo in cui l’altro diventa uno specchio che riflette un’immagine lusinghiera di noi stessi. Se l’immagine che egli ci dà non ci piace, lo allontaniamo dal nostro orizzonte. Il mondo diviene così diviso in coloro che incontriamo e gli “altri”.

Chi di noi non ha mai provato una cosa simile? A volte mi sono trovato completamente sprovveduto di fronte a persone che non aspettavo. La loro presenza mi faceva sentire a disagio e sembrava soffocare ogni mia capacità di incontro. E poi un giorno mi sono accorto che qualcosa si sbloccava in me. Non parlavo più dell’altro in termini medici, politici o pastorali. Poco a poco la paura faceva posto alla fiducia. L’altro diveniva un fratello, una sorella.

Qualche anno fa mi trovavo sul treno, diretto in Germania. Mi ricordo che accanto a me c’era una famiglia con un bambino piccolo. Avevo una grande voglia di giocare con lui e di prenderlo in braccio. Ma il treno è arrivato a Strasburgo. Sono sceso e mi sono avviato alla sala d’attesa, perché avrei dovuto aspettare alcune ore ed era notte. Subito dopo un uomo traballante è entrato e si è seduto accanto a me. Era completamente ubriaco. Non so se in tempo “normale” l’avrei lasciato dormire sulle mie ginocchia (il tempo “normale” è spesso quello dell’egoismo e della paura). Ma quella sera, al di là di ciò che vedevo e respiravo di lui, sapevo che c’era in lui un bambino più vulnerabile di quello visto sul treno poco prima. Ha posato la testa sulle mie ginocchia ed ha dormito in questa posizione fino all’alba.

Incontrare l’altro non significa sceglierlo, ma scegliere di lasciarsi scegliere da lui.

Quando parliamo di povertà, pensiamo nella maggior parte dei casi a quella piccola povertà che ci permette di realizzarci senza dover rinascere. Ma nel momento in cui la povertà si rivela come è nella realtà, ci stordisce e ci tiriamo indietro con le scuse migliori: “Tutto, ma non questo.”

Il povero dà sempre fastidio perché scuote l’edificio delle certezze che abbiamo pazientemente accumulato e per dirla tutta, ci apre la porta di una libertà che ancora non vogliamo avere.
Incontrarsi è scoprire che si è presenti l’uno all’altro, che si vive l’uno per l’altro. Non solo per guardarsi negli occhi e stare bene insieme, ma per guardare nella stessa direzione ed avanzare insieme.

A Fede e Luce dobbiamo essere pronti a lasciarci mettere in discussione dalla presenza dei più poveri.

A causa della loro sete di amore, come a Cana, essi ci condurranno al di là delle nostre riserve, al di là di ciò che avevamo previsto e programmato. Essi apriranno i nostri cuori all’imprevisto e alla festa.

Luis Sankalé, 1980

– Leggi il prossimo articolo: 3. I protagonisti- I volti di Fede e Luce: handicappati, genitori, amici e sacerdoti

Questo articolo è tratto da:
Insieme n.24, 1980

2. L’arte dell’incontro: superare la paura della diversità ultima modifica: 1980-03-16T18:30:34+00:00 da Luis Sankalé

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