Una bambina con disabilità deve affrontare una società immersa in immagini stereotipate del corpo femminile al quale è richiesto di rientrare in canoni precisi per essere accettato dalla società ai quali non potrà mai rispondere, perché la bacchetta magica per aggiustare la disabilità non l’hanno ancora inventata. Questa sfida per una ragazza o una donna con cerebrolesione è ancora più difficile perché viviamo in corpi storti, induriti dalla spasticità e avvolti dal pregiudizio che in molte società contorna l’aggettivo «spastico». Ma noi siamo molto più di un aggettivo.
Eppure lo sguardo della gente ti segue e ti insegue, non per la tua bellezza, ma come segno tangibile di domande inespresse perché la società non è pronta a farsi domande, tantomeno a dare delle risposte. Per questo, molto spesso sento genitori rispondere «zitto, non si chiede!» alla semplice domanda del figlio «Perché lei cammina così?». Domande inespresse che creano muri e barriere di ignoranza.
Per provare a scalare questi muri le adolescenti con disabilità hanno due strade: chiudersi al sicuro nella propria cameretta e scrutare il mondo dai social network o uscire e affrontare gli sguardi del mondo. Personalmente ho scelto la seconda strada, affrontando la vita su una pista di atletica, un passo dopo l’altro, insieme ai miei compagni di classe che la società considera normodotati.
La prima volta che partecipai in top e pantaloncini a una finale nazionale dei Giochi per studenti di atletica leggera, lo stadio mi tributò una standing ovation. Ero da sola ad affrontare un giro di pista, 400 metri, durante i quali non potevo nascondere il mio corpo storto, ma potevo provare a correre più veloce che potessi. Anche se nel 1999 avevo ancora bisogno del supporto della mano per correre.
Un altro modo per affrontare la vita per una ragazza con disabilità è sicuramente uscire con i propri coetanei, vestirsi e truccarsi. Ma avete mai provato a mettere un eyeliner con una mano spastica? Potrebbe uscire un bel quadro cubista e gli occhi potrebbero bruciare molto! C’è veramente bisogno di tanto allenamento prima di riuscire. O avete mai provato a trovare un vestito che si adatti al corpo di una donna con disabilità? Sempre che si riesca a trovare un camerino accessibile per provarlo prima di acquistarlo. È davvero giunto il momento che le case di moda pensino linee inclusive anche per donne con disabilità.
Crescere vuol dire fare i conti con un corpo che cambia, con sogni e desideri di una vita normale, di istaurare relazioni di amicizia e d’amore come ogni altro adolescente. E qui iniziano i problemi più seri, perché tutti pensano alle persone con disabilità come esseri angelici e asessuati, bambole che rimangono sempre bambine. Invece cresciamo con tutti i nostri sogni e le nostre insicurezze. Ma c’è un problema. Un problema molto serio. Mentre i genitori delle ragazze normodotate si preoccupano di mettere in guardia le figlie dai pericoli che si nascondono all’interno delle relazioni più o meno intime con altri o altre, nessuno sembra avere la stessa preoccupazione per le ragazze con disabilità. Quindi cresciamo ignare dei pericoli che si nascondono dentro le pieghe della società e troppo spesso ci troviamo a essere vittime di molestie e violenze sessuali da parte anche delle persone che dovrebbero avere cura di noi. Per questo vorrei ringraziare Emanuela, una ragazza italiana con cerebrolesione che ha voluto denunciare pubblicamente il suo stupratore, raccontando la sua esperienza e il suo essere indifesa, proprio perché come ha dichiarato ai giornali «non sapevo cosa fosse un rapporto sessuale».
Con sogni e desideri di una vita normale, di istaurare relazioni di amicizia e d’amore, come ogni altro adolescente
È ora di rendersi conto che a una donna con disabilità e con cerebrolesione basta bloccare le braccia per renderla incapace di difendersi. Per questo è importante accompagnare anche le ragazze con disabilità in un percorso di consapevolezza di se stesse. Inoltre, è importante formare i ragazzi e spiegare loro che una donna con disabilità può contrarre malattie e rimanere incinta come ogni altra ragazza, quindi, avere rapporti con una donna con disabilità non esenta dall’uso dei contraccettivi. Può sembrare un concetto banale e evidente, ma posso assicurarvi per esperienza personale che alcuni ragazzi spariscono un secondo dopo aver fatto questa scoperta.
Se si ha la fortuna di incontrare la persona giusta, anche una persona con disabilità vuole mettere su una famiglia e avere dei figli. In questo momento può essere la famiglia di origine a fare delle resistenze, cercando di convincere la donna a desistere dal proprio proposito o di interrompere la gravidanza. Alcuni anni fa, prima che rimanessi incinta io stessa, ho incontrato una mia coetanea con cerebrolesione che ha iniziato a pormi domande sulla mia relazione. Ho risposto con sincerità anche che fossi pronta ad affrontare una gravidanza. Diventò cupa e, abbassando il tono della voce mi confidò che qualche tempo prima era rimasta incinta, ma poi suo padre l’aveva convinta ad interrompere la gravidanza «perché sai – mi disse – io non potrò mai essere una brava madre». Ma che vuol dire essere «una brava madre»?
Per abbattere questo muro di ignoranza ho deciso di lanciare una campagna di comunicazione social raccontando la mia gravidanza che mi ha permesso di costruire, dopo oltre 4 anni, una rete di contatti di madri italiane con disabilità, la maggior parte con cerebrolesione, per sostenerci ma anche per dimostrare alle giovani ragazze con cerebrolesione che anche noi donne con cerebrolesione possiamo essere madri.
È bene ricordare, però, che nel momento in cui una donna con cerebrolesione scopre di essere incinta, scopre anche che «non c’è letteratura in proposito, si procederà in modo empirico, giorno dopo giorno, ma i problemi almeno per me sono iniziati un attimo dopo aver partorito, quando la spasticità ha iniziato a interferire con le contrazioni dell’utero: nessuno sapeva, nessuno poteva prevedere, non c’erano protocolli né terapie antidolorifiche da attuare compatibili con l’allattamento al seno del neonato. Per questo vorrei porre l’attenzione sulla necessità di compiere studi di medicina di genere anche sulle correlazioni tra gravidanza, parto e spasticità. Occorre una formazione specifica dei ginecologi e l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali non solo nella gestione della gravidanza e del parto, ma anche e soprattutto per favorire la prevenzione delle patologie femminili: c’è bisogno di lettini elettrici e di strumentazione accessibile per compiere le analisi. E serve non essere giudicate, prese per bambine che giocano a fare le adulte, da medici che ti dicono «ma lei lo sa che bisogna aver avuto rapporti sessuali per potersi sottoporre a un pap test?». Personalmente ho risposto: «Se sono qui non lo deve spiegare a me, ma a tutte le ragazze normodotate o disabili che non sanno di dover fare prevenzione». È evidente che un’osservazione simile può essere una barriera più difficile da sormontare di un qualunque gradino, per cui quella visita può essere la prima e l’ultima.
Ma affrontare una gravidanza è un’esperienza assolutamente fattibile per una donna con cerebrolesione. Dopo il parto per me è iniziata una vita bellissima, io e mio figlio abbiamo iniziato a giocare insieme, a fare tutti quei giochi che a me sono stati impediti durante l’infanzia dalla paura, dai pregiudizi e dall’ignoranza dei miei insegnanti della primaria che mi volevano seduta, spettatrice della vita degli altri, mentre loro erano impegnate a insegnarmi che quella sedia fosse il mio posto nel mondo. Mio figlio mi sta insegnando che quella sedia può essere un trampolino per lanciarsi in mille sfide e mille avventure, quelle che inventa girando intorno a me.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.167