Il 72° Festival del Cinema di San Sebastián (SSIFF) è stato una vetrina importante per il cinema in lingua spagnola: dei 16 film in concorso, ben 6 erano parlati in spagnolo. Ma non c’è dubbio che la Concha de Oro (il premio più importante) assegnato al documentario Tardes de soledad del catalano Albert Serra sia meritata, nonostante le polemiche che lo hanno preceduto.

I gruppi animalisti ne avevano chiesto l’esclusione dal concorso temendo che celebrasse la tauromachia, ma quello di Serra non è un film a favore o contro. Nel mostrare il torero peruviano Andrés Roca, Serra usa uno stile preciso e ripetitivo: quando si sposta in auto lo filma sempre dallo stesso punto di vista frontale, quando è nell’arena lo filma puntando sempre su di la macchina da presa (mentre sta aspettando o mentre sta toreando) evitando i campi lunghi. Possiamo ammirarne gestualità ed espressività da vero attore, ne vediamo arroganza e dolore; persino la vestizione in hotel è come una cerimonia.

Questo modo di filmarlo forse cede un po’ alla fascinazione per la sua figura, ma è innanzitutto una rappresentazione estetica senza implicazioni morali. Proprio per questo, chi crede che il torero sia l’eroe, troverà materiale per rafforzare la sua convinzione, ma chi crede che la corrida sia una barbarie, la vedrà rappresentata come tale in modo meccanico e fino alla noia: una libertà di giudizio lasciata allo spettatore da una regia che fornisce un’esperienza artistica anziché un calco della realtà.

Tra i film che spiace non avere visto premiati, c’è invece l’ultima opera di Costa-Gavras, Le dernier souffle, tratto da un saggio (inedito in Italia) reso come fosse un film di finzione, in cui infatti vengono cambiati i nomi dei due autori: lo scrittore Fabrice Toussaint (basato su Régis Debray e interpretato da Denis Podalydès) e il medico Augustin Masset (basato su Claude Grange e interpretato da Kad Merad) che si confrontano sul tema delle cure palliative.

Lo scrittore conosce il medico dopo una visita di controllo e si interessa al suo difficile lavoro con i malati terminali sia per curiosità, sia perché ha paura per il risultato delle sue analisi. Attraverso i ricordi del medico, e poi seguendo i suoi pazienti in cura, scopriamo come egli cerchi di rapportarsi ai malati che non hanno più speranza di guarigione, e alle loro famiglie. Il problema principale è che molti di loro si aspettano di essere guariti, o almeno che ci si provi in ogni modo fino alla fine; talvolta questa ostinazione acceca anche – o soltanto – i familiari. Per molti è dura accettare un accompagnamento dignitoso a una morte non più evitabile, come se avessero ancora qualcosa che li trattenga; poi ci sono quelli che soffrono più nella mente che nello spirito, o quelli che semplicemente vorrebbero essere assistiti nel modo più decoroso possibile.

Storia dopo storia – tutte raccontate con semplicità e sincerità, senza inutile enfasi né ricatti emotivi – ci viene proposta una vera e propria educazione filosofica alla morte, in modo da capire come affrontarla con serenità o comunque senza sofferenze fisiche e psicologiche superflue. Cinema rigoroso e anche utile, con lo sguardo lucido e partecipe sulla malattia e sul fine vita di un maestro del cinema ultra novantenne.

Un altro grande regista in concorso è stato Mike Leigh (in passato vincitore a Cannes e Venezia) che in Hard Truths ha costruito una serie di piccole storie familiari attorno a Pansy (Marianne Jean-Baptiste), una donna “difficile”: ha un brutto carattere, è asociale, ossessionata dall’igiene, probabilmente ha una depressione non diagnosticata. Ha un pessimo rapporto col marito e ancora peggiore col figlio, un ventiduenne che non studia né lavora; neppure con la sorella, madre single di due figlie, riesce sempre ad andare d’accordo.

La descrizione dei disagi familiari in una comune famiglia britannica contemporanea, soprattutto quelli mai esplicitamente affrontati e quindi mai trattati, è molto accurata, come se dietro ci sia stato un grande lavoro per rendere sfaccettata e credibile questa famiglia disfunzionale, anche con l’accortezza di non spiegare tutto in maniera forzata, in particolare sul passato dei personaggi.

Purtroppo non si nota altrettanta cura nell’aspetto estetico: la fotografia ha una luce piatta e le immagini non hanno alcuna bellezza cinematografica; i troppi primi piani, anziché servire a dare drammaticità ai personaggi, sembrano un espediente da film per la televisione per evitare di mostrare ambienti e paesaggi. È un film con una bella sceneggiatura, soprattutto nella costruzione dei personaggi, ma non altrettanto bello da vedere.

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Il cinema spagnolo al Festival di San Sebastián ultima modifica: 2024-10-11T08:24:02+00:00 da Claudio Cinus

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