Il nome di Capodarco è già conosciuto da molti di noi; forse è stato solo sentito nominare come indicativo della speranza e della novità che contiene e suggerisce.
Vale dunque la pena di saperne qualcosa di più; ed è per avviare questa conoscenza che vi diamo le notizie che abbiamo raccolto da don Franco Rubianesi in una rapida visita al centro di via Lungro.
Prima di tutto Capodarco vuol dire comunità: vuol dire mettersi insieme, essere solidali, non sentirsi e non lasciare soli.
Quando nel Dicembre 1966, nel paese delle Marche che porta questo nome, si formò il primo gruppo, questo era costituito da don Franco Rubianesi, da una decina di ragazzi e ragazze con diversi tipi di invalidità e con “tante idee bellissime”. Erano ragazzi che avevano deciso di uscire dall’isolamento, di imparare – con lo stare insieme – ad accettarsi, per fare una strada di crescita come tutti gli altri ragazzi ed inoltre, di conquistare una propria autonomia attraverso il lavoro (lavori anche minimi, con perline o altro). La comunità era aperta a tutti quelli che volevano partecipare alla costruzione di questo progetto: di conseguenza in breve si allargò; il lavoro divenne più consistente sviluppandosi soprattutto in direzione della ceramica dove sapevano fare cose bellissime e furono conosciuti anche all’estero.
Nel 1969 il Servizio civile internazionale arricchì la comunità con i suoi volontari che venivano da ogni parte del mondo, perfino dall’Asia, dalla Africa, dall’America.
Le persone che abbiamo incontrato ci dicono che furono anni vivi; esaltanti, da cui tutti trassero importanti motivi di spinta, di verifica, di riflessione.
Ora sono nate comunità in diversi posti d’Italia: Udine, Endine (Bg), Lamezia Terme, Sestu (Ca), Fabriano (An), Gubbio e Perugia. Non hanno identica struttura, ma hanno in comune il tipo di rapporto, democratico, teso alla valorizzazione di ognuno, che lega le persone all’interno del gruppo e — fatto specifico e qualificante – l’apertura all’esterno: al quartiere, alla città e soprattutto a chi, per il fatto stesso di essere in condizioni di difficoltà, di debolezza e di inferiorità, tende ad essere piano piano, ma inesorabilmente, emarginato dalla società.
A Roma vi è un gruppo centrale, molto numeroso, in via Lungro 3, che si avvale di due laboratori bene avviati, di elettronica e di ceramica; ma la tendenza è quella di formare via via comunità più piccole, “centri-famiglia”, spesso vere e proprie famiglie formate da ragazzi che si sono conosciuti nella comunità stessa; quando non si è troppo numerosi è più facile approfondire i rapporti interpersonali, affrontare, risolvere o semplicemente vivere le tensioni e i conflitti che inevitabilmente si creano in un tipo di vita così ricca, così tesa verso il futuro, così decisa a non mortificare o schiacciare nessuno, neanche per avere pace e ordine.
I due gruppi di via Lungro sono destinati a diventare, in un prossimo futuro, soprattutto centri sociali con uffici, luoghi di incontro e di riunioni, corsi professionali, terapie aperte al quartiere.
Dal punto di vista economico hanno delle sovvenzioni dal ministero; ma il lavoro è una delle principali fonti di sostentamento: chi vive nella comunità ha a disposizione una medesima somma mensile; diciamo che riceve lo stesso stipendio: quarantacinque, cinquanta mila lire al mese.
Può darsi che le notizie date non siano precise, e ci dispiace.
Quel che ci premeva avvicinare e far conoscere però, è questo spirito che anima tanta gente del nostro tempo. Uno spirito di vita e di speranza in un tempo che non ci deve ingannare quando mostra solo i segni della morte e della disperazione.
Lucia Bertolini, 1978
Questo articolo è tratto da:
Insieme n.16, 1978