Le temperature, nei primi giorni della Berlinale 74, sono state quasi primaverili; il clima è cambiato, ma solo per quanto riguarda il meteo. Si attendeva un clima acceso in termini di dibattito politico e così è stato, a partire dalla prima conferenza stampa in cui la giuria ha parlato più di guerra e razzismo che di cinema. E anche il film inaugurale, in effetti, ha affrontato temi sociali rilevanti, ma a catturare l’attenzione è stato soprattutto il protagonista Cillian Murphy, in piena corsa per l’Oscar come interprete di Oppenheimer. A Berlino, invece, è protagonista di Small Things Like These: un attore irlandese per una storia profondamente irlandese, sebbene diretta dal belga Tim Mielans. Tra tutte le brutture dell’Irlanda di metà anni Ottanta in cui si imbatte il personaggio di Bill Furlong, commerciante di carbone, ci sono povertà diffusa e situazioni familiari difficili (che hanno riguardato anche lui, come si scopre nei flashback), ma anche le Case Magdalene, i conventi in cui venivano recluse contro la loro volontà le ragazze ritenute “immorali” e ripudiate dalle famiglie (l’ultima Casa è stata chiusa nel 1996).
Il personaggio di Murphy sembra incarnare un senso di colpa collettivo su tanti mali che hanno riguardato il novecento irlandese: è un uomo che non nasconde i suoi sentimenti, soffre visibilmente e il suo dolore è scolpito in un volto reso tagliente dalla fotografia oscura e deprimente. Rappresenta un esempio di carità inizialmente solo immaginata, che ha bisogno di una scossa per trasformarsi in azione; purtroppo il film soffre di questa titubanza, perdendosi in troppe ripetizioni quando il messaggio che si vorrebbe comunicare diventa evidente troppo presto.
Altro film in concorso destinato a far discutere è il thriller A Different Man di Aaron Schimberg. Il regista, nato con il labbro leporino, in seguito trattato con un intervento chirurgico, è da sempre interessato al tema della percezione dei volti alterati rispetto alla norma, da parte di chi li guarda e di chi invece viene osservato; eppure ha spiegato alla stampa quanto sia difficile rappresentare le disabilità al cinema, perché se si sceglie un attore normodotato si può essere accusati di impedire agli attori con una disabilità di avere una rappresentatività adeguata, ma se si sceglie qualcuno che interpreti la propria disabilità si può essere accusati di sfruttare le malattie altrui. E allora Schimberg, anziché scegliere, ha fatto entrambe le cose.
Il protagonista Sebastian Stan a inizio film indossa una maschera: interpreta un uomo con il volto deformato, presumibilmente a causa della neurofibromatosi (in conferenza stampa si è usato il termine disfigured e si è bandito monster). Quando gli viene offerta una cura sperimentale, accetta di sottoporvisi e per lui c’è un prima e un dopo, come se avesse l’opportunità di diventare un uomo diverso. Qui c’è il primo tema controverso: cambiare l’aspetto del proprio volto implica anche cambiare personalità, oppure l’anima di una persona non è legata all’esteriorità? Il protagonista vorrebbe dimenticare il passato, che però per caso torna a inseguirlo: prima sotto forma di un testo teatrale proprio sulla sua vita precedente, poi attraverso un’altra persona con la neurofibromatosi. Quest’ultimo nella vita ha davvero tale malattia: è Adam Pearson, noto attore e personaggio televisivo britannico. L’incontro tra il viso regolare di un attore che soltanto fingeva di essere deformato, e quello davvero mutato da una malattia reale, è moralmente sfidante per lo spettatore, ma è devastante soprattutto all’interno del film, perché il proprietario del nuovo volto è come se patisse violentemente il confronto con chi gli mostra ciò che avrebbe potuto essere ma non è più, né potrà più essere; allo stesso tempo, metaforicamente potrebbe essere un attore che crede di saper interpretare una disabilità meglio di chi la ha davvero.
Ci troviamo di fronte a un modo originale di ragionare su come rappresentare malattie particolarmente evidenti come quelle che riguardano il volto, cercando di non cadere nella vittimizzazione narrativa ma neppure ignorando il bullismo e i problemi sociali che ne possono derivare. Se da un punto di vista puramente cinematografico si può restare spiazzati ma anche delusi dalla prevedibile follia che si impadronisce di chi non sa mantenere un collegamento equilibrato tra corpo e mente, da un punto di vista teorico ci sono innumerevoli spunti su moralità e immoralità della rappresentazione visiva e psicologica delle disabilità, quando lo sguardo dello spettatore è costretto a osservare, per la durata di un intero film, tutto ciò da cui nella realtà forse preferirebbe non essere mai coinvolto.
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