Se pure non chiaramente attribuibile all’antropologa statunitense Margaret Mead, la riflessione sul femore appartenente a un individuo vissuto migliaia di anni fa è suggestiva. Quell’osso dell’arto inferiore con tracce di guarigione da una frattura, infatti, poteva rappresentare il primo segno di civiltà in una cultura antica. Non lo erano – avrebbe risposto Mead alla domanda di una studentessa – una macina, una terracotta o un amo per pescare: germe di civiltà era qualcuno che, probabilmente non da solo, aveva deciso di prendersi cura del ferito, rimanendogli accanto il tempo necessario perché non cadesse preda di fiere o intemperie, procurandogli cibo e protezione. Quante volte lo abbiamo sentito o letto: la cura dei più vulnerabili rimane misura del grado di evoluzione di una società. Ci crediamo davvero? Sempre forti rimangono «la tentazione e l’illusione di poter bastare a se stessi, di poter fare a meno della relazione e dell’incontro», soprattutto se quell’altro è percepito diverso da noi. Lo sottolineava il testo utilizzato per la veglia ecumenica tenutasi a Roma il 30 settembre scorso, promossa dalla comunità di Taizè con l’aiuto di diverse realtà ecumeniche. Tra esse Fede e Luce, che, nella parte dell’incontro dedicata al ringraziamento per l’altro, ha meditato il brano evangelico del Buon Samaritano attraverso il linguaggio del mimo. Ne leggerete all’interno del numero, insieme alle esperienze e testimonianze che raccontano, in varie declinazioni, di una cura che diviene relazione, incontro con l’altro, da «proteggere e coltivare», come scrive Lino nel suo diario. Con l’augurio che il Natale alle porte rinsaldi nei nostri cuori la consapevolezza di essere stati scelti da Dio per essere con e che solo nella relazione «germoglierà il seme di bellezza piantato in ciascuno di noi». L’Emmanuele, l’altro per eccellenza, Dio con noi, ci conduca a riscoprire quella bellezza, quell’Amore «nostro scopo e nostro essere», ogni giorno.
Cura e civiltà
ultima modifica: 2024-02-16T12:17:50+00:00
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