“Ve lo dico subito: questo libro è bellissimo. E non potrei dire altrimenti perché Patrizia è una mia amica e guai a chi me la tocca. Ho seguito queste 188 pagine ancora prima che fossero pubblicate partecipando al crowdfunding con cui è stata finanziata la pubblicazione. E quando finalmente ho avuto in mano il libro arancione l’ho letto tutto di un fiato. Ho riso, mi sono commossa, ho pensato, mi sono stupita e mi è sembrato di camminare insieme a lei attraverso la sua incredibile vita. Leggere la sua storia è stato per me come entrare in punta di piedi nella sua “stanza” e scoprirne i segreti. Patrizia non si è risparmiata niente, ha voluto provare tutto, con forza e determinazione ha superato le sue oggettive difficoltà. E porta a chiederci: ma poi in fondo che cosa è la disabilità? Ciò che ci può rendere difficile la vita a o il modo come gli altri ci guardano?“ (Monica Leggeri)
Abbiamo così intervistato Patrizia Ciccani dopo aver letto il suo libro, incoraggiati dalla nostra comune amica. Trovate la recensione nella rubrica Libri.
Ha fatto molta fatica a scriverlo, rispetto alla necessità di dover esplicitare tanta parte del suo intimo?
Non ho fatto alcuna fatica, forse perché da diverso tempo avevo intenzione di scrivere la mia storia. Nel mio lavoro è stato fondamentale mettere me stessa e i miei vissuti a disposizione degli altri. La mia disabilità è stata ed è strumento educativo.
Nonostante la disabilità abbia connotato la sua vita in modo così decisivo è pur vero che alcune esperienze e gli stati d’animo che racconta nel libro non sono poi tanto differenti da quelli di chi disabile non è: in questo senso la sua sembra una vita molto normale. Penso alle vicende legate ai tempi della scuola, dei primi amori, delle difficoltà di relazioni tra pari…e poi le difficoltà per trovare un lavoro…un possibile suggerimento di uguaglianza?
Credo che questo sia proprio un punto centrale del libro: la mia è una storia comune. Allora perché suscita sorpresa? Perché la disabilità distorce, esalta, affonda, rende peggiore o migliore ciò che per gli altri è normale. Quando la disabilità diventerà una caratteristica e basta, quando non segnerà più un confine, allora una storia come la mia sarà considerata un po’ meno eccezionale.
Il tema fondamentale del pregiudizio, del quale troppo spesso si è sentita “vittima” ma alcune -poche- volte anche “colpevole”…fa pensare che nessuno possa esserne completamente immune. Sembra una prerogativa tanto umana: sapere che guida i nostri comportamenti, da conoscere – decisivo allora il ruolo dei “girotondi” di cui parla nel libro – ma forse non completamente eliminabile?
Il pregiudizio è un modo “economico” di rispondere alla realtà che vediamo, apriamo dei cassetti mentali e affettivi dove troviamo le istruzioni su cosa pensare, cosa fare, addirittura cosa sentire rispetto a chi abbiamo di fronte, e non mi riferisco soltanto alla disabilità. Le istruzioni le riceviamo dalle persone per noi significative e più in generale dalla cultura nella quale siamo immersi, soprattutto nell’età della formazione della nostra personalità, quando si radicano le convinzioni più profonde. In questo senso nessuno è immune. Il pregiudizio cambia a seconda della cultura. Il lavoro educativo è il solo, a mio avviso, in grado di eliminarlo completamente. Mi riferisco a un lavoro educativo che intervenga sul piano affettivo e cognitivo, non basta conoscere, bisogna fare i conti anche con i sentimenti che emergono nell’incontro con l’altro.
Di fronte ad una persona con una disabilità può capitare di mettere in atto comportamenti maldestri, intrusivi, provocatori, indifferenti; anche lei racconta di come alcune osservazioni schiette e dirette sulla sua disabilità all’inizio l’abbiano ferita ma poi, superato il momento iniziale, abbiano dato vita ad amicizie importanti: c’è un modo per uno sguardo, un approccio, “giusto”?
Lo sguardo “giusto” è quello libero da paure, da parte di chi guarda, ma anche da chi è guardato. È naturale la curiosità che induce a osservare ciò che si discosta dalla nostra normalità. Lo sguardo ferisce quando chi ne è l’oggetto non ha fatto ancora pace con se stesso. Per me le cose sono cambiate veramente quando ho rafforzato la stima di me stessa, anche attraverso il mio lavoro con i bambini, allora lo sguardo, come anche un certo approccio, ha cominciato a scivolarmi addosso.
Nella conclusione del libro dice che non ha messo radici in nessun ruolo o contesto; afferma che la disabilità è la sola costante della sua vita familiare, lavorativa, affettiva. C’è un legame inevitabile tra i due aspetti?
Non credo. La mia voglia di scoprire e di sperimentare cose nuove, mi porta a non sposare nessuna teoria, nessun credo, nessuna filosofia, da ogni esperienza prendo qualcosa, la trasformo, mettendoci del mio, questo penso sia indipendente dalla disabilità. D’altra parte non so come sarei e come sarebbe la mia vita senza disabilità.
Mi ha colpito la sua espressione “tornano i conti” rispetto al ragionamento del lettore che è più probabile che una persona con disabilità sia amata da un’altra ugualmente disabile. Meno probabile invece pensare che l’avere una disabilità dia la possibilità di saper vedere “oltre” la disabilità stessa. Quale dei due ragionamenti è più realistico secondo lei?
Nessuno dei due è realistico, entrambe le affermazioni partono da assunti sbagliati che non hanno nulla a che vedere con l’amore. Ci innamoriamo perché… difficile dirlo, ma non è un vedere oltre la disabilità, dal momento che la disabilità è parte integrante della persona, e non è neanche una migliore comprensione perché si vive la stessa situazione. Questo è quanto pensa chi ha il terrore di innamorarsi di una persona con disabilità. C’è anche chi si innamora e scappa. Per fortuna però la realtà ci racconta di molte coppie dove non ci si chiede quale peso ha la disabilità di uno o di entrambi, si vive e basta.
a cura di Cristina Tersigni, 2106
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.133