Io che ero cresciuta piuttosto sola, con una sorella nata sei anni dopo di me, ero affascinata dalla grande famiglia Mazzarotto, fatta tutta di giovani, che mi aveva accolto con affetto e generosità. I genitori erano morti, e Mariangela, insieme agli altri fratelli maggiori, aveva molto da fare, ma si prendeva le sua responsabilità con allegria e non l’ho mai sentita lamentarsi.
Per molto tempo sono andata quasi tutti giorni a casa sua per preparare insieme l’esame biennale di italiano di Sapegno. E ho scoperto un nuovo modo di studiare, dove l’importante non era tanto l’imparare, quanto il riflettere sui temi che ci venivano proposti. Abbiamo letto, parlato, discusso, ci siamo confrontate per mesi (il programma d’esame era immenso) e alla fine ero una persona diversa. Avevo imparato a vedere le cose da un altro punto di vista più concreto, più umano, più maturo. Perché per Mariangela la cultura non era vuota astrazione, ma un modo di vivere.
Dopo che mi sono sposata e trasferita ad Ancona non l’ho più vista. Ci siamo sentite per telefono e ogni volta era come se ci fossimo viste il giorno prima. E sono passati 50 anni. Leggevo sempre i suoi editoriali su Ombre e Luci e ci ritrovavo il suo modo fiducioso di affrontare la vita, il suo coraggio, la sua intelligenza e sensibilità. Pensavo sempre di venirla a trovare, ma ho rimandato troppo.
Molte persone che ho frequentato 50 anni fa mi sono passate accanto e non ricordo neanche il nome, altre sono entrate nel mio cuore e ne sono uscita diversa. L’incontro con Mariangela è stato un dono del buon Dio. Se non l’avessi conosciuta sarei probabilmente più arida, più cerebrale, più egocentrica.
Gabriella Boyer, 2014
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128