“La mia vocazione è di essere felice e di vivere nel mezzo della mia comunità. È un privilegio vivere con delle persone fragili. Chi ha un handicap sicuramente ha bisogno di professionisti bravi, di medici che diano loro buone medicine, dei fisioterapisti, ma soprattutto ha bisogno di qualcuno che dica loro: amo vivere con te. Amare vuol dire fare cose per una persona, amare vuol dire rivelare dell’altro la sua bellezza, che è importante così come è.”
Queste parole di Jean Vanier, pronunciate a Roma nel novembre scorso, ci hanno suggerito alcune domande.
Credi che le parrocchie dedichino il giusto interesse all’accoglienza del debole?
La realtà attuale purtroppo è che nelle parrocchie non c’è una vera consapevolezza che le persone con disabilità siano qualcosa di prezioso. Le persone con disabilità possiedono una semplicità e una capacità di amare in così tanti modi che possono cambiare i nostri cuori. La Chiesa è la prima casa per il debole e il povero, ma nonostante questo per moltissimi anni le persone con disabilità furono (e talvolta sono) ben lontane dall’essere considerate esseri umani. Prima di realtà come l’Arca o Fede e Luce, prima di persone come Mariangela, la sola idea di avere un figlio con handicap mentale era una tragedia. Ciò che possiamo fare è quindi continuare a lottare. Lottare non solo per le persone disabili mentalmente, ma soprattutto per insegnare l’amore alle persone, fuori e dentro le parrocchie.
Ci sono stati enormi progressi nell’accettazione delle persone disabili, ma le comunità Fede e Luce vivono ancora difficoltà. Talvolta l’accoglienza delle persone fragili non comporta un puro coinvolgimento dei nostri cuori. Come potremmo cambiarli allora?
Il più delle volte, le persone sono così scosse dall’esistenza delle persone con disabilità che non riescono a vedere la loro bellissima capacità di amare. Sono ancora tante le persone che non pensano con il cuore ma solo con la propria testa. Per aprire il nostro cuore è necessario entrare in relazione, aprirsi al dialogo, senza preoccuparsi di un atteggiamento particolare. Non c’è una ricetta specifica a questo cambiamento: il nostro cuore deve entrare in contatto con il cuore dell’altro, in comunione.
Spesso le famiglie con dei bambini disabili hanno problemi nell’incontrare persone con handicap più adulte. In che modo è possibile farli sentire più a loro agio?
Capisco questi genitori che, come parte di comunità in cui ci sono tantissime disabilità differenti per tipo ed età, siano in qualche modo spaventati e non abbiano voglia di andare. Anche nel caso ci sia una speranza che venga curato, i genitori soffrono nel vedere come loro figlio possa diventare tra 10-20 anni, forse perché non sono ancora pronti. Per rispondere a questa esigenza, in Francia stiamo creando piccole comunità di soli genitori di bambini non più grandi di 10 anni. In questo modo è più facile riunirsi; si instaura qualcosa tra i genitori che permette di aiutarsi e di divertirsi insieme. La speranza rimane più viva ed è più facile aver fiducia nel futuro quando si sta a contatto con bambini piccoli.
Come si possono aiutare le comunità Fede e Luce di differenti confessioni nel vivere l’ecumenismo?
Sarebbe bello scoprire persone che vedano l’unità oltre il modo in cui preghiamo, anche se lo facciamo in modo differente (penso ad esempio alle preghiere ortodosse). In Italia questo è difficile perché è un paese molto cattolico, diverso dall’Inghilterra o dagli Stati Uniti. Ogni ortodosso o protestante è un dono di Dio, hanno ricevuto anche loro lo Spirito Santo, i loro genitori hanno sofferto come i genitori cattolici. Come creare il punto d’unione? Un veicolo è senz’altro la diffusione dei documenti sull’ecumenismo di Fede e Luce, ma resta una lunga strada da percorrere, poiché in molti sono ancora troppo radicati alle loro tradizioni religiose.
Come possiamo attirare nuovi amici che non sono ancora entrati in contatto con la disabilità?
Si dovrebbe parlare di più di disabilità nelle scuole. Andare nelle classi e far scoprire il mistero della disabilità, attraverso incontri con persone fragili, parlando della loro vita, delle loro esperienze. In passato è stato fatto, ma è necessario un rinnovamento, c’è bisogno di nuovi stimoli e nuove idee più in linea con la realtà dei giorni nostri.
Ci sono persone la cui assenza non è percepita nelle nostra vita quotidiana, in chiesa o a scuola: pensiamo a chi non ha mai visto la luce a causa dell’aborto terapeutico. Puoi dirci qualcosa in proposito?
In generale le persone sono molto spaventate nello scoprire di avere un bambino con disabilità e velocemente pensano all’aborto come ad una soluzione. Pensano che il prezzo da pagare sarebbe senz’altro minore rispetto ad anni di sacrifici e preoccupazioni. Io invece credo che la vita sia più forte della morte. Tutti noi lottiamo e soffriamo, è una cosa assolutamente naturale. Purtroppo la sofferenza, questa nostra lotta naturale, a volte spinge alla scelta più semplice, ma non sempre è quella più vicina a Dio e alla verità.
A cura di Cristina Tersigni e Rita Dinale, 2013
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.121