Nel corso della sua vita c’è stata un’ esperienza determinante – un prima e un dopo – vissuta in un foyer dell’Arche in Bretagne. Durante un anno Christine ha frequentato la comunità e ha partecipato all’animazione di laboratori creativi! “C’era lì una tale gioia! Ci dice. Jean vanier ha avuto una visione profetica: i rifiutati, quelli che si vogliono nascondere, diventano occasione di irradiazione spirituale e fraterna della vita locale. Sapevo che avrei fatto qualcosa in questo settore”.
A quell’epoca, questa donna elegante e osservatrice, viene colpita da una grave malattia endocrina, scoperta dopo una diagnosi errata. “Ero dimagrita molto e sono stata tacciata di anoressia” continua lei, “ho davvero capito che cosa possono provare le persone fragili”. Donna destinata ad una eccellente carriera nella finanza dopo seri studi universitari, “da persona brillante e circondata perché promettente”, si ritrova all’improvviso “rifiutata, disprezzata, sofferente” e conosce l’isolamento.
Discesa nel piu’ profondo dell’essere
L’educazione ricevuta non l’aveva preparata ad una simile situazione. “Mi avevano insegnato l’eccellenza – confessa – a spingere sempre più avanti i miei limiti, a sviluppare progetti di carriera… Se guardavo a quei punti di riferimento, sarei crollata”. Doveva disfare per intero l’abito di quella vecchia vita per imparare l’umiltà, la vita nella fiducia qui e subito…Durante questa malattia, una persona l’accoglie con calore in una casa aperta a persone di estrazione molto diversa, il tutto in una grande mescolanza culturale e spirituale. “E’ stato proprio questo a salvarmi” Ho deciso allora di amare secondo le mie possibilità tutti quelli che passavano accanto al mio letto: amici malati di cancro, persone anziane, intellettuali ortodossi,rifugiati, bambini di passaggio…”
Desiderosa di approfondire la sua fede, Christine Dupuis ne approfitta per leggere numerosi scritti spirituali e biografici di santi e, in parallelo, comincia una psicoterapia. “Dopo aver brillato nel fare, sono scesa nel più profondo dell’essere”. Questa breccia aperta nel suo cuore ferito le permette di portare uno sguardo nuovo sulla fragilità psichica e la sofferenza di un amico. “Sono stata sconvolta dalla sua tristezza, la sua solitudine, dall’incomprensione totale di chi gli era attorno. Desideravo ad ogni costo mantenere un legame con lui”.
Nello stesso tempo, una serie di incontri intriga Christine Dupuis: per tre o quattro v9olte di seguito, durante dei ritiri, si ritrova accanto a mamme di un figlio schizofrenico. Un giorno condivide con una di loro lo stesso parere sui centri belgi inadatti secondo loro, alla sofferenza psichica. Insieme decidono di fondare un luogo di vita fraterna. “Forte della mia esperienza all’Arca e di quanto vi aveva vissuto, potevo dire: è possibile!”
Alleggerire il quotidiano dei giovani schizofrenici
Le cose si mettono presto in piedi. Con dei genitori e degli amici desiderosi di sostenerli, Christine Dupuis comincia organizzando delle attività per i fine settimana con qualche giovane malato.Viene presto creato un consiglio di amministrazione; dei genitori acquistano una casa nel sud del Belgio e l’affittano all’associazione che si vuole di ispirazione cristiana. Infine un’amica regala mobili e tende per fare della casa un luogo bello e buono, dettagli ai quali Christine è particolarmente sensibile.
Oggi, la MAISON DU FESTIN lavora in collaborazione con un’équipe psicopedagogia: psichiatra, ergoterapeuta, psicologi… Quattro adulti, dai venticinque ai trent’anni, vivono sul posto e nel week end sono raggiunti da due o quattro altri giovani.
Quest’estate, grazie ad una persona che ha prestato il suo chalet, hanno potuto partire per un soggiorno di quindici giorni in Svizzera. “Era meraviglioso – ricorda lei – potevano scegliere le passeggiate che desideravano”. Questi buoni momenti permettono di dimenticare per un po’ il quotidiano reso pesante e frustrante dalla malattia. “Nel momento più tragico della sofferenza – continua Christine – c’è una grazia speciale di comunione con il divino, perché la malattia mette a nudo. Non ci si può più ricoprire con le proprie certezze o con l’immagine sociale che ci si è creata. Si soffre nel corpo e nelle relazioni, ma c’è quella breccia, un crepaccio nella montagna. Mi piacerebbe offrire a queste persone la possibilità di trovarla e che questa comunione possa aver luogo, se Dio lo vuole. Ma questo non ci appartiene.
Florence Chantal, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.116