In tanti anni di lavoro come assistente sociale, ho visto avvicendarsi leggi, riforme e controriforme, sia in ambito sanitario che in materia di assistenza sociale Una cosa molto importante a cui si è dato sempre grande rilievo la “centralità della persona” nel processo di aiuto. Questo principio ho cercato di tenerlo sempre ben presente, ma troppo spesso le gravi carenze organizzative (e non solo!) hanno rischiato di farlo smarrire.
Si può infatti smarrire la persona quando devi dire alla mamma che il suo bimbetto con un ritardo di linguaggio dovrà aspettare un anno per una valutazione, o quando si ristrutturano le sedi di servizi pubblici senza prevedere un agevole accesso per i disabili o quando ti accorgi che agli extracomunitari si dà sempre del tu, quando per certi bambini o ragazzi troppo gravi non c’è mai posto per le terapie, quando si introducono innovazioni troppo tecnologiche per cui diventa complicato per molti anche solo presentare una domanda, quando un assistente sociale deve fare oltre trenta colloqui di accoglienza in una mattinata!!!
Altro forte pericolo di “perdita della persona” deriva dalle categorizzazioni o meglio altro dall’identificazione della persona con il suo problema; i vari servizi sono organizzati spesso per fasce di età, ma anche per il tipo di problema presentato. Sicuramente sarà un sistema più funzionale, tuttavia si rischia di usare le persone come oggetti da catalogare.
Ho sentito più volte dire che i Servizi li fanno gli operatori che vi lavorano; non sono del tutto d’accordo, perché credo che occorrano anche delle strutture idonee con risorse adeguate, tuttavia è indubbio che ciò che conta in ogni processo di aiuto è il rapporto umano tra l’operatore e chi presenta il problema. Si deve essere veramente convinti, e non solo a parole, che tra l’operatore e l’assistito deve esserci uno scambio, una vera comunicazione, e chi chiede aiuto, nel riconoscimento dell’altro può ritrovare fiducia e risorse che gli consentano di andare avanti, di tentare, quando è necessario, anche altre vie per uscire dalle proprie difficoltà.
Ho scelto tre esperienze personali da narrare qui di seguito, fatti assolutamente veri, brevi narrazioni di tre “incontri” avvenuti nel corso dei miei quaranta anni di lavoro.
Alia
Due genitori rom, con cui una, la più piccola, di dieci anni con una grave disabilità psico-fisica. Dopo un intenso e costante lavoro da parte di volontari della Comunità di Sant’Egidio, finalmente portano a visita la bambina alla ASL. Dopo poco il neuropsichiatra esce dalla stanza con gli occhi di fuori ed il naso tappato con le dita e mi chiede: che ci possiamo fare con questa bambina tanto sporca e ormai così compromessa?!
Il risultato è stato che di Alia ci siamo occupate prevalentemente l’educatrice ed io, per cercare di inserirla in un centro di riabilitazione (ma inutilmente!) per inserirla a scuola (anche qui solo formalmente) per fare in modo che la sua famiglia fosse accolta in un campo attrezzato (e non dover sostare qua e là per lo più abusivamente su molti figli di terreni isolati e assolutamente privi di ogni risorsa)…
Quando i due genitori entravano alla ASL, tutti gli operatori si chiudevano nelle loro stanze, per il cattivo odore . La mia collega ed io, cercavamo di superare “l’ostacolo” aprendo la finestra, ma dando comunque loro accoglienza per tutto il tempo necessario.
Un giorno la mamma di Alia, ci ha dato una vera lezione di dignità; alla mia collega che, incontrandola davanti alla sua parrocchia a chiedere l’elemosina, l’ha salutata e stava per offrirle del denaro, lei, con le lacrime agli occhi, ha detto “no grazie, da te non posso accettare”. La mia collega si è commossa e l’ha lasciata con un abbraccio.
Una “persona”
Da alcuni anni veniva da me alla ASL una signora i cui figli erano ormai adulti, ma lei continuava ad affacciarsi per un consiglio o un parere, tanto che i colleghi come la vedevano mi chiamavano dicendomi “c’è in anticamera la tua vecchietta”(che poi vecchia non era affatto!).
Mi parlava spesso della figlia più grande, sposata con un altro povero sventurato e poi rimasta vedova, disoccupata con quattro figli, di cui l’ultima con qualche problema. La “mia vecchietta” insisteva nel chiedermi di parlare con questa sua figlia che peraltro abitava fuori dal mio territorio di competenza e all’estrema periferia, opposta alla nostra.
Veramente non avevo intenzione di coinvolgermi in una situazione tanto complessa, e far attraversare la città, inutilmente, a questa donna, ma dopo tante insistenze, alla fine le ho dato appuntamento, continuando a ribadire che però non avrei potuto fare nulla per lei.
Si è così presentata da me, una mattina, una signora che nascondeva la sua giovinezza sotto un bel po’ di ciccia e la bocca sdentatà dietro una mano, nonostante ciò, decorosa nell’aspetto e con un modo di parlare molto corretto. Mi ha descritto la sua difficile situazione economica e familiare, ma forse mi ha parlato solo della sua fragilitàm della sua insicurezza di fronte a tanti problemi.
L’ho ascoltata per — e poi le ho dato delle indicazioni: dove andare, a chi rivolgersi… nel congedarla mi scusavo, dicendole che ero molto rammaricata, che glielo avevo detto di non poter fare niente… ma lei mi ha risposto “grazie comunque! lei ha fatto molto per me, perché mi ha trattato come una persona!!!”
La drogata
Luana, poco più di una ragazzina, t0ssicodipendente, sieropositiva, a ventitre anni ha una figlia di tre, nata dall’unione con un uomo molto più grande, già sposato e convivente con un’altra donna.
La sua famiglia di origine è disgregata, dominata dalla droga, sia come consumo che come fonte di sostentamento. Una “ragazzina” confusa a cui l’ex compagno aveva, forse anche giustamente, sottratto la bambina, approfittando di un suo momento particolarmente critico.
Non sarebbe stato facile permettere a questa giovane e sventurata madre di riprendere con sé la figlia: la tossicodipendenza, la mancanza di una casa, di un lavoro e nemmeno una famiglia di origine che la sostenesse! Ma ho cercato di guardare oltre ed ho visto solo una ragazzamadre, con un forte legame con la sua bambina e con una grande determinazione a volersene prendere cura.
Dopo alcuni incontri e colloqui, ho messo Luana di fronte alle sue responsabilità, presentatole con chiarezza e forse anche con una certa durezza, la situazione, chiedendole cosa pensava di fare per ottenere l’affidamento della figlia; la sua reazione è stata impulsiva, di rabbia; è uscita dalla stanza, sbattendo la porta ed ha iniziato ad inveire contro tutti, aggiungendo anche una parolaccia nei miei confronti. Ma dopo qualche giorno però è tornata! Ha posto lei una domanda di aiuto! Abbiamo così lavorato insieme a tutto tondo, cercando una soluzione per superare i tanti problemi. Finché una volta durante un colloquio mi ha detto con grande serietà, ma anche con imbarazzo: “Vedi, io continuo a darti del tu, qualche volta sono anche maleducata, però questo non vuol dire che non ti rispetti, questo è solo il modo mio di fare, io ho capito che tu mi vuoi aiutare e mi tratti come una persona che dovrebbe essere ormai adulta, una madre, non come una “drogata”.
Rita Massi, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.115