Ogni giorno accompagno i bambini a scuola: A. alla scuola dell’infanzia e M. alla primaria, che, per chi è un po’ più in là con gli anni, sono la scuola materna e le elementari. I nomi sono cambiati nella scuola ma sono le situazioni che possono fare la differenza. Non è cambiando nome che si realizzano ambienti migliori.
Dove vanno A. e M. qualcosa di diverso c’è: la dirigente scolastica nella sua lunga permanenza in questo plesso ha cercato di far sì che la scuola fosse un luogo per tutti, senza distinzioni.
Quando arrivi a scuola e ti guardi attorno, ti trovi di fronte ad un mondo così variegato, così colorato, così ricco di segni che non conosciamo, o che abbiamo visto magari in televisione o in un film: e te li trovi vicino, davanti, di fianco.
Sui muri sono appesi cartelli con dei disegni che scopri essere segni di altre lingue parlate in nazioni distanti da cui provengono gli abitanti del paese.
Quando aspetti che i bambini escano da scuola vedi persone con abiti che parlano di culture lontane. Le mamme pachistane veston lo salwar kamiz, una tunica fino al ginocchio sopra ad un paio di pantaloni e sulla testa una sciarpa leggera. Il tutto in una miriade di colori sgargianti. Le mamme arabe portano il velo e amano i colori scuri. Le mamme africane vestono i colori accesi delle loro terre d’origine, a volte con copricapi elaborati, ma fatti solo con un taglio di stoffa, arricchiti con quelli che a noi sembrano scialli o sciarpe.
Alcuni papà, specie il venerdì, hanno abiti lunghi come le tonache dei preti ma di solito bianchi o panna o azzurri. Altri vestono la tuta da lavoro con il logo della loro officina. I bambini ormai vestono all’occidentale ma si distinguono per le acconciature. Tra loro spiccano i piccoli sikh che hanno il capo coperto da un fazzoletto di stoffa quadrato, ben tirato attorno alla testa, che mette in evidenza una sorta di pallina sulla sommità del capo: nasconde un piccolo chignon di capelli, che, dalla nascita in poi, non vengono mai tagliati.
Le bambine africane invece, sono una festa di treccine.
In questa attesa vedi piccoli gruppi di persone che si ritrovano e parlano la loro lingua madre, con i gesti e le movenze tipiche del loro modo di comunicare: la riservatezza degli orientali, la parlata schietta degli arabi, le movenze e i toni alti degli africani, la gestualità degli italiani.
Intanto che osservi, questo popolo di persone così diverse ti guarda: guarda i nostri vestiti, la camicia o la giacca, la cravatta o i tatuaggi sulle braccia di qualche papà, le scarpe con i tacchi alti e sottili, le borsette, le gonne corte, i bermuda. E intanto ascolta i nostri discorsi, la nostra d lo guardo te che mi appari così diverso da me e tu guardi me che ti appaio così diverso da te. Sperimentiamo la stessa identica situazione. Guardiamo alle cose che ci distinguono, che non ci appartengono. A questo punto abbiamo la possibilità di fare una scelta: prendere la strada della distanza e dell’allontanamento, o percorrere la strada dell’incontro.
Escono i bambini dalla scuola: corrono, si salutano, si danno appuntamento al giorno dopo, si prendono in giro. Nessuno chiede all’altro: perché sei diverso da me? Loro si sentono bambini. Punto. Da dove arrivano, come si vestono, che lingua parlano, di che cultura sono, a quale Dio credono, per loro non è un ostacolo al sentirsi bambini che vanno nella stessa scuola, che hanno le stesse maestre, che imparano le stesse materie, che giocano agli stessi giochi. In una scuola che rispetta la diversità e non obbliga all’omologazione, la diversità diventa un valore e nello stesso tempo una norma: perde la caratteristica dell’eccezionalità e diventa possibilità alla pari. Non stupisce allora che in questo ambiente, la ‘diversità’ dei bambini disabili sia solo un elemento del tutto.
Al parco giochi qualche bambino mi ha chiesto “perché M. è così?”: ho detto che è nato “così”. Non è servito altro ai compagni di classe di M. per giocare con lui, prenderlo in giro, fargli i dispetti, coinvolgerlo, regalargli un disegno per il suo compleanno, salire con lui sul palco della scuola. I compagni di A. si sono dati la spiegazione che A. non cammina e allora usa la carrozzina. Punto. Anche il tubicino per mangiare aveva solo il significato di essere utile ad A. A loro interessa se A. va a scuola o no e se è ammalato e quando torna.
In questa scuola dove è stato promosso un atteggiamento di accoglienza e di inclusione delle diversità culturali, linguistiche, religiose, la diversità è solo un punto di vista, uno sguardo che non impedisce di vedere le persone che incontro. Che una persona abbia in testa il turbante, o porti la cravatta, che abbia la pelle pallida 0 color dell’ebano, che sia su una carrozzina o sia sordo, non è diversa da me che ho i capelli bianchi in testa.
Claudio Roncoroni , 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.115