Nel 1986 ho raggiunto un sogno tanto anelato: come giovane sacerdote agostiniano ottenni il permesso dai miei superiori religiosi di andare a Roma a realizzare studi superiori di teologia morale. Dopo diversi anni d’intensa vita pastorale in Argentina, mi era offerta la possibilità di arrivare nel posto in potevo conoscere le persone più brillanti e famose della vita accademica teologica e della gerarchia della Chiesa. Sono arrivato a Roma felice e disposto a non distrarmi né con lavori pastorali né con attività straordinarie. Avrei solamente studiato e avrei cercato di cogliere il maggiore profitto dall’eccellenza dell’ambito accademico.
Poche settimane dopo il mio arrivo il P. Brian, Priore dello Studio Internazionale Agostiniano Santa Monica dove risiedevo, mi disse che c’era un gruppo in cerca di un assistente spirituale e che si riuniva “solamente” due volte al mese: poco “lavoro”. Lui pensava che io sarei stato in grado di farlo e mi chiese se accettavo. L’idea non mi entusiasmava, però ero disposto ad acconsentire alla richiesta del Superiore. Quando chiesi che gruppo fosse e cosa avrei dovuto fare, la risposta mi devastò: È un gruppo di persone con handicap mentale e vogliono condividere con te l’amicizia”.
Non lo potevo ammettere! Risposi al mio Superiore che ci avrei pensato giacché io ero arrivato a Roma per incontrare persone intelligenti e sagge e non per spendere il mio tempo con persone disabili (usai parole più discriminatorie e offensive che non oso scrivere) Consideravo quasi un insulto alla mia intelligenza, la proposta che mi veniva fatta. Brian mi comprese e con pazienza e carità mi disse che non era un insulto, che ci pensassi su e di parlarne con la responsa bile di Fede e Luce. Devo confessare (e qua dimostro ancora la mia piccolezza ) che le prime chiamate che Maria ed Enrica mi fecero per invitarmi a una riunione della Comunità di Villa Patrizi di Roma, mi disturbarono e, con assai poca cortesia, diedi loro delle risposte ambigue e dilatorie nella speranza che non mi chiamassero più. Loro però, donne e di Fede e Luce (!), serenamente e con costanza perseverarono$ fino a quando un giorno ebbi vergogna di me stesso e delle mie risposte evasive che si avvicinavano molto a una mancanza di educazione. Così, tagliante e secco, un giorno risposi che sarei andato, però solo per celebrare Eucaristia e dopo sarei tornato ai miei studi.
Dio mi attendeva nelle persone di Marina, Raffaelle, Roberta, Massimo, Cristinona, Maria Cristina, Franco, Maria, Giovanni e tanti altri. Sono stato ricevuto con sorrisi e mani che mi carezzavano con una familiarità che solo si permettono i figli e i fratelli. lo, studente e professore, ero semplicemente Alberto, il povero Alberto, che non capiva niente, ero un “disabile” per non essere capace di leggere le pagine più recondite e importanti della propria vita: scoprire il profondo segreto che Dio condivide con ognuno dei portatori di handicap.
Imparai, nella prima riunione, durante la prima Eucaristia, che la spiritualità dei piccoli e la semplicità della gioia richiedono un abbassarsi e un umiltà evangelica: così come Pietro negò tre volte il Signore per paura e per non essere identificato come suo discepolo, così io negai per paura e per non voler rinunciare al mondo dei saggi.
Quel primo incontro con le persone di una Comunità di Fede e Luce, con la mia Comunità Villa Patrizi, fu talmente decisivo che quando due anni dopo, avendo finito i miei studi, ritornavo in Argentina, avevo solo una certezza: avrei portato con me Fede e Luce, nel mio paese.
Non avevo molta esperienza e non sapevo né come si organizzava una Comunità né chi avrei trovato per aiutarmi a iniziarne una. I miei Superiori mi spedirono come Parroco alla città di Mendoza, ad ovest dell’Argentina. Passai un paio di mesi nel mio nuovo lavoro e continuavo a chiedermi come, quando e con che iniziare una Comunità di Fede e Luce. Volevo essere sicuro e organizzare bene le cose. Non trovavo nessuno.
Continuavo girando intorno all’idea e prendendo misure precauzionali, finché, un giorno d’estate, dopo pranzo, uscii a camminare per il quartiere. Non c era nessuno per le strade (a Mendoza la siesta è sacra, particolarmente durante estate) con l’eccezione di due ragazzi con Sindrome di Down, che camminavano allegramente lungo il marciapiede. Mi avvicinai per chiedere loro come si chiamavano e dove abitavano, pensando che, se erano delle vicinanze, forse avrei potuto visitare le loro famiglie, in un futuro prossimo e parlare loro di Fede e Luce. Daniel mi disse subito: “ io abito qui, vuoi entrare?”. Eravamo alla porta di casa sua a cinquanta metri della Parrocchia! Era mio vicino ed io non lo conoscevo. Juan Sergio abitava a cento metri Con loro, le loro famiglie e un gruppo di amici della Parrocchia cominciò la prima Comunità: San Agustìn. Poco a poco Fede e Luce iniziò a crescere in Argentina ed oggi è presente in diverse città del paese.
Un giorno siamo andati a La Serena, in Cile, perché sapevamo che arrivava MarieHélène Mathieu. Le abbiamo raccontato che eravamo in cammino da un paio di anni e che avevamo già tre comunità. Lei, con il suo sorriso e la pace che tutti conosciamo, mi ha detto: “Sono anni che preghiamo per la nascita delle comunità in Argentina e tu non ci hai mai detto che ci sono già?!” ci informò che c’erano altre due Comunità nei dintorni di Buenos Aires, delle quale noi non sapevamo niente. Aggregarsi alla famiglia mondiale di Fede e Luce e stato un rinascere e un non fermarci più.
Oggi non posso pensare alla mia vita senza i miei amici speciali e non basterebbe un libro però raccontare tutti i doni e le grazie che ho ricevuto tramite loro e per la giuda amorosa di Marie-Hélène e di Jean. Tanto nella mia vita ministeriale come in quella accademica, la spiritualità dei piccoli, dell’amicizia e della festa, sono stati fonte permanente di senso e significato. Jean Vanier una volta mi disse: “Non rinunciare ad includere nei tuoi studi e nei tuoi scritti, le persone speciali”. Posso affermare che grazie a tutti e ciascuno degli amici che hanno partecipato a questa storia, la mia storia, io sono riuscito a capire, amare e vivere quello che Dio aveva destinato a me: una vita felice nella Beatitudine, festa della semplicità di comprendere che la vita serba un segreto che Dio ha confidato alle persone con handicap mentale e che solo loro ce lo possono svelare.
Alberto G. Bochatey, OSA, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.114