Ho imparato, con i miei approcci titubanti e con i miei errori, che non è cosa facile e che la buona volontà e il buon cuore non bastano. La mia esperienza di mamma di una figlia gravemente disabile è stata spesso un vantaggio. Dopo la sua morte, mi sono accorta che senza la sua presenza l’approccio si faceva più difficile.
Poiché sono certa che è molto importante non lasciarli soli, soprattutto quando sono giovani genitori e quando sono agli inizi della prova, ho pensato di offrire alcune riflessioni a quanti vogliono farsi loro vicini.
Tre atteggiamenti mi sembrano basilari per avvicinarsi con il piede giusto a questo incontro. La sincerità: essere se stessi senza coprirsi di intenti o di maschere per accattivarsi la loro simpatia. Dire apertamente chi si è e perché sentiamo il bisogno di dare una mano.
L’umiltà, che non vuol dire cercare di farsi piccoli o incapaci o inadeguati. Mantenere i piedi per terra, affrontando quel poco che sapremo offrire con realismo e pacatezza preparati a ricevere e ad accogliere su di sé le loro reazioni qualunque esse siano, anche offensive e sgarbate.
Il discernimento: saper guardare al di là dei loro volti, delle loro parole, per scendere con perspicacia nel profondo del loro cuore, per far risuonare in noi quello che non possono dire: il loro grande, immenso dolore.
Ci sono alcuni consigli che mi sento di offrire che sono solo frutto della mia esperienza. Altri — più preparati di me -— potrebbero dire meglio e di più.
Essere vicini ai genitori di figli disabili, non vuol dire soffocarli con le nostre parole, con il resoconto della nostra vita e dei nostri guai. Non pretendere che da subito aprano il loro cuore e parlino del loro figlio disabile.
Accompagnarli nel loro cammino partecipando alle loro emozioni o al loro dolore esprimendo con delicatezza una vera partecipazione.
Trovare il momento opportuno per proporre qualche attività che li faccia uscire dal loro trantran. Una volta entrati nella loro stima e amicizia (ci vuole tempo), proporre di occuparsi del loro figlio per lasciarsi liberi una sera, o un pomeriggio, o un week-end.
Se vi invitano a parlare della vostra vita o delle vostre prove, è bene farlo brevemente e solo per aiutarli ad aprire il loro cuore perché pian piano possano raccontare il loro disagio, la loro rivolta, le loro difficoltà a far fronte a situazioni troppo ardue.
Se vedete che è il caso e vi sembra che siano necessarie, proponete loro situazioni pratiche (indirizzi di scuole, centri, case famiglia, associazioni…) senza far loro pressioni, lasciando loro il tempo di scegliere e decidere con calma. Dimenticavo la cosa più importante. Ogni volta che sono “partita in missione” verso qualcuno di loro, sconosciuto ai miei occhi e segnalatomi con frasi del tipo: “prova se puoi fare qualcosa…”, mi sono sempre sentita povera, incapace e sola. Mi sono incamminata a fatica, stringendo forte la mano di Gesù, chiedendogli di parlare Lui per me e di sorridere Lui a chi avrei incontrato. Non mi ha mai deluso.
Mariangela Bertolini, 2008
Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.
Tutti gli articoli di Mariangela
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.101
Sommario
Editoriale
Avvicinare i genitori di M. Bertolini
Dossier: Un percorso di catechesi speciale
La loro e nostra Cresima di Pietro Vetro
L’uomo guarda il volto, Dio il cuore di V. Mastroiacovo
Ho camminato vicino a Marco di R. Tarantino
Abbiamo tutti bisogno dei sacramenti di P. Luciano Larivera
Articoli
I ragazzi di Sipario
Tra il dire e il fare non c’è più il mare di M. Bartesaghi
Concorso fotografico “Legami” di A. Panegrossi
Sbagliando s’inventa di L. Nardini
Invasioni rumene, non barbariche di H. Pott
Immaginate... di M.C.V.
Testimone oculare di M.T.Mazzarotto