Benedetta è entrata a casa dopo aver vissuto i suoi primi cinquanta giorni di vita in ospedale. Non tutto è stato risolto e non tutto potrà essere risolto. Ma va benissimo così! Provo a raccontare — piuttosto confusamente e con una serie di emozioni affastellate — una piccola storia di fede e di fedeltà. Benedetta — secondo i criteri oggi dominanti — non sarebbe dovuta nascere. La sua vita è ancor di più dono, speranza, verità, amore. Queste righe sono una “confidenza spirituale”,in amicizia.
Siamo abituati a pensare che le persone deboli, fragili, piccole, malate, abbiano bisogno di avere accanto uomini e donne forti in tutto e per tutto. Ho fatto una scoperta: non è vero. L’esperienza mi ha insegnato, mordendomi la carne, che sono io ad avere bisogno di una persona debole, fragile, piccola, malata. Questa persona ha un volto e una storia. Il suo nome è Benedetta. È mia figlia.
L’ho pronunciato con fierezza, ad alta voce, il nome di mia figlia la sera che l’ho battezzata. I medici e le infermiere del reparto di terapia intensiva hanno interrotto il loro lavoro per qualche istante e si sono riuniti intorno all’incubatrice di Benedetta per partecipare a quel singolare rito del Battesimo amministrato dal padre alla figlia. Erano presenti altri sette bambini, anch’essi protetti dal calore dell’incubatrice. Per qualche secondo gli allarmi non sono suonati. Ho tracciato il Segno della Croce sul suo corpo, piccolo e sofferente. Un attimo di silenzio. Poi è scattato il “fischio” a denunciare un problema alle pulsazioni di Giacomo, uno dei piccoli ricoverati.
Per il rito di “completamento” del Battesimo, e più precisamente per il rito di accoglienza di una bambina già battezzata, abbiamo scelto il giorno del Lunedì dell’Angelo: nel giorno del “non abbiate paura” l’abbiamo presentata “ufficialmente” alla comunità cristiana. È il giorno dopo la Risurrezione. È il giorno delle donne, dei più deboli e dei più piccoli. È il giorno della sorpresa che sfocia nella speranza e nella gioia. Nei primi, drammatici, giorni di vita l’unica parte del suo corpo che si poteva accarezzare senza far suonare l’allarme era la manina destra. Ho messo un dito nella. sua mano e lei lo ha stretto con la sua fragile forza. Siamo stati così per ore, in comunione. Felici di stare insieme. La sua fiducia mi ha toccato il cuore. Oserei dire: mi ha convertito. Le nostre mani unite erano un segno di amore. Mi sono trovato a pregare senza averlo deciso. Ho recitato mille Ave Maria facendo scorrere lentamente il mio polpastrello sulle sue ditine, come se fossero i “grani” della Corona del Rosario.
Sono sicuro che Dio, in quei momenti, teneva il suo dito nell’altra mia mano. La paternità che ho per Benedetta, Lui ce l’ha per me. Benedetta mi ha proposto di scegliere, una volta per tutte, la vita. Ha aperto davanti a me una porta di speranza. E non ha ancora il dono della parola. Mi ha introdotto in un mondo della sofferenza e della piccolezza che ignoravo totalmente. Nell’incontrare ogni giorno i genitori di tanti piccoli sofferenti — in quel luogo di coraggio che è un reparto ospedaliero neonatale — sono rimasto sconvolto dal grido che prorompe dal loro essere, dal loro viso, dai loro gesti, dalla terribile sete di amicizia che si riconosce nei loro sguardi.
Ho capito subito che Benedetta ed io saremmo avanzati insieme, che lei mi avrebbe aiutato più di quanto potrei mai fare io. Senza dubbio so fare tante cose “efficaci”, tuttavia mi sono accorto che queste non occupano il primo posto nella lista di ciò che Benedetta si attende da me. Si aspetta l’essenziale: la presenza, la relazione, l’amore.
Il mio ruolo è quello di darle la possibilità di rivelare il proprio dono, la propria capacità di amare nella verità. È straordinario constatare come Benedetta possa comunicare una nuova visione del mondo.
Ricordo di aver contemplato una Natività, credo fiamminga, che mi ha costretto a chinare il capo. I due piccoli più vicini al Bambino Gesù erano un angioletto e un pastorello: tutti e due con i tratti caratteristici della sindrome di down. Erano vicini al Cuore del Signore.
Abbiamo atteso sette anni il dono di un figlio. Evidentemente il Signore ha voluto che ci caricassimo di amore così tanto da poter accogliere una bambina che di amore ne ha bisogno… “di più”. Benedetta è un profeta. Chiama al cambiamento.
La malattia, la debolezza, è una condizione oscurata oggi.
È una dimensione debole della vita e forse si tende a percepirla come una mortificazione inaccettabile. Giorno dopo giorno, con una rapidità quasi brutale, si diventa solo quel male, si diventa solo quelle cure. Si capisce, a poco a poco, che cosa significa malattia e lo si capisce attraversando giornate di dolore, di paura, di solitudine.
Il Signore ci ha aiutato puntualmente a scegliere di vivere e non di sopravvivere e basta. Benedetta non è mai sola: accanto ha tutte le persone che le vogliono bene. Anche quando non poteva vederle e non poteva sentirle, ha comunicato con il cuore. Tutte queste persone le danno la forza. Benedetta lotta anche per loro. Ecco che proprio lei, così piccola, è capace di vivere e di far vivere una delle esperienze più serie della vita, che appartiene a tutti, e che non dovrebbe mai trovarci troppo impreparati.
Ora è il “tempo della riabilitazione”, ci dicono i medici. È senza dubbio un fatto fisico che passa attraverso la paziente e spesso limitata ricostruzione di quella architettura mirabile e delicata che è il corpo umano. Ma la riabilitazione è soprattutto un “fatto dell’anima”, della speranza, della preziosità di ogni vita e di ogni persona che è sempre Sede della presenza del Signore. Per questo tutti abbiamo bisogno di essere riabilitati. Sicuramente più di Benedetta.
Un abbraccio, sicuro di non dover ricordare di pregare per Benedetta. Del resto basta dire l’Ave Maria per nominarla… “Tu sei Benedetta fra le donne…”
Giampaolo
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.87
Sommario
Editoriale
L'iniezione di Uscobupt di M. Bertolini
Parliamo di lavoro
Il collocamento mirato di T. Cabras
Storia di Giorgio e del suo lavoro di P. Tardonato
Articoli
Benedetta mi ha convertito di Giampaolo
Il film «Le chiavi di casa» di T. Cabras
La barca bianca di J. Larsen di Silvia Gusmano
Associazione “Invitati alla festa” di Cyril Donille
Una Casa-famiglia dove la maternità ritorna gioia di Giulia Galeotti
Come guardano i bambini di una mamma
Sguardo come?
Rubriche
Libri
Sempre Capricci!, R. Giudetti, M. Lecci
Bianco su nero, R. Gallego
Mio padre è un chicco di grano, L. De Vita
Francesca Cabrini, L. Scaraffia