Perché hai scelto tuo fratello?
Come mi è stata rivolta questa domanda, ho avuto un attimo di esitazione e di riflessione insieme: «Perché ho scelto mio fratello?» — «No, non io ho scelto mio fratello, ma è stato il Signore a scegliere me per lui e per tanti ragazzi come lui!»
Se mi seguite nel percorso della mia vita, potrete capire come il Signore mi abbia condotto per mano e come, in Giorgio mio fratello più piccolo, mi abbia fatto un grande dono del suo amore.
Avevo 15 anni nel lontano 1942, e sentivo la gioia dell’attesa di un fratellino o sorellina: ero studentessa ginnasiale e amavo i bambini.
Quando Giorgio nacque ne fui felice, benché fosse tanto piccolo e gracile (pesava meno di due chili) e questa gioia era condivisa da tutti: fratelli, papà e mamma. Soprattutto la mamma era certa che il bambino, malgrado le difficoltà (era prematuro, affetto da mongolismo molto evidente, incapace di piangere, di succhiare il latte, estremamente delicato) con le cure e le attenzioni, si sarebbe ripreso.
Quanta abnegazione soprattutto dalla mamma che gli dava il latte goccia a goccia ma quanta certezza che Giorgio doveva sopravvivere! Tutta la famiglia era in trepidazione e attenzione intorno al bambino. Io, ricordo, non fui neppure sfiorata dal pensiero che Giorgio potesse morire.
Dopo pochi mesi Giorgio era diventato un bambino meraviglioso, sempre pronto a sorridere alle nostre attenzioni e ai richiami. Solo dopo vari anni seppi che Giorgio era mongoloide, ma il fatto non cambiava nulla; solo eravamo preoccupati che non potesse andare a scuola o essere accolto da una struttura privata in grado di dargli qualche aiuto per crescere.
Il problema ci unì ancora di più e ci indusse a dare il massimo per lui, con serenità e naturalezza: era il fratellino più piccolo e attirava l’amore e la predilezione di tutti.
Anzi, essendo anni duri di guerra, la presenza di Giorgio ci portò serenità in mezzo alle sofferenze: un fratello in Germania, un altro fratello nella Resistenza e la minaccia che anche mio padre venisse deportato in Germania.
Finita la guerra, la vita di famiglia riprese nel suo cammino: ciascuno di noi fratelli procedeva per il suo impegno specifico.
Quando Giorgio aveva circa 8 anni, convinsi i miei genitori a interpellare un professore di Firenze e, se fosse stato necessario, a lasciarlo presso l’Istituto di Firenze dove potesse essere seguito qualche anno per imparare qualche cosa, visto che nella nostra città, non esisteva alcuna possibilità per lui. Il professore lo visitò e disse: “Il bambino è grave, non potrà mai imparare a parlare correttamente né leggere e scrivere. Se qualcuno vi dirà di allontanare il bambino dalla famiglia, non date ascolto. Il suo bisogno affettivo è forte e la scuola più adatta sarà solo la famiglia: soffrirebbe troppo, se allontanato, e non potrebbe acquistare nulla”. Questo corrispondeva a quanto già i miei genitori sentivano in cuore.
Giorgio cresceva, era amato da tutto il vicinato (abitavamo in periferia dove erano ancora veri i rapporti di amicizia) e trascorreva la giornata stando un po’ con tutti.
Però gli anni passavano ed era sempre più evidente l’esigenza che Giorgio imparasse qualche cosa così da organizzare meglio la sua vita.
Io intanto avevo frequentato l’Università, conseguita la laurea in chimica pura e, trovato impiego a Milano presso l’Edison. Ero sempre via da casa, ma il fine settimana rientravo a Cremona, in famiglia e dividevo il mio tempo con la casa e le attività parrocchiali, stando tutto il possibile con il mio Giorgio, che sempre mi attendeva con entusiasmo.
Avevo cominciato la mia professione nel campo della ricerca come meglio non avrei potuto desiderare; ma, contemporaneamente, maturava in me anche il bisogno di decidere per quale ideale la mia vita dovesse essere spesa.
Dopo un incontro con una missionaria «Ausiliaria Laica» belga, sentii che tutta la mia preparazione doveva essere messa al servizio delle Missioni ovunque il Signore mi avesse inviato. Ormai ero pronta a partire per la Casa Madre delle Ausiliarie Laiche, in Belgio.
Ne parlai in famiglia e non potete immaginare quanto forte fu l’opposizione di tutti, genitori e fratelli maggiori. Mi convinsi a rimandare il tutto: nel frattempo avrei potuto approfondire la mia preparazione anche professionale. Devo però precisare che l’opposizione della famiglia, specialmente del padre, era proprio per non lasciarmi partire lontano dalla casa e non perché in famiglia c’era il mio Giorgio in difficoltà.
Certo confesso che ancor oggi rivivo quei giorni con sofferenza, perché quel progetto non è mai stato cancellato dal mio cuore.
Dopo un anno di lavoro a Milano, ecco la proposta di trasferimento ad un laboratorio di ricerca che stava per aprirsi a Piacenza: occasione favorevole per avvicinarmi alla famiglia. Proprio quando pensavo di lasciarla e attendevo il segno in proposito, ecco che nella proposta di trasferimento il Signore mi porta più vicino alla mia famiglia, dandomi anche la possibilità di un impegno professionale meraviglioso, per il quale avrei viaggiato sovente per l’Italia e per l’estero, particolarmente in Belgio.
Trasferita a Piacenza, conosciuti alcuni articoli del Corriere sull’importanza della rieducazione dei ragazzi mongoloidi, prendo la decisione di fare qualcosa subito per il mio Giorgio il cui problema chiedeva sempre più una risposta concreta.
Cerco quindi un piccolo appartamento, cerco una giovane maestra disposta a stare da me l’intera giornata — il lavoro mi tiene lontana da casa tutto il giorno. Trovati, non mi resta che proporre alla famiglia di prendere Giorgio con me: ho qualche apprensione per la risposta.
Ma il Signore conduce sempre il nostro cammino sul suo disegno. Infatti, rientro a casa per il fine settimana e mia madre mi accoglie con queste testuali parole: «Senti Franca, fa qualche cosa per Giorgio! non ascolta più nessuno, è sempre in giro in bicicletta…».
Non potete immaginare la mia gioia di poter rispondere: «Sta tranquilla, mamma, avevo pensato di fare qualcosa per lui: ho trovato un piccolo appartamento e una giovane maestra disponibile tutto il giorno. Solo il tempo di arredare le due stanze e Giorgio viene subito con me».
Benché avesse già 16 anni, Giorgio guadagnò moltissimo nella nuova sistemazione. Lavorava col pirografo, col traforo, e riusciva a copiare e fare disegni sempre più completi; imparò a riordinare la casa che sentiva sua, ad amar sempre più la musica. In poche parole, scoprì se stesso, le sue capacità, il suo desiderio di fare e la gioia di saper fare tante cose utili.
Ogni pomeriggio frequentava il Laboratorio dei Missionari Saveriani, dove venivano preparati i Fratelli ed anche questo fu prezioso per la sua crescita soprattutto spirituale. Con l’aiuto e la guida dei Padri che lo amavano, si preparò a ricevere la Comunione e la Cresima. Fu meravigliosa la gioia con cui visse quel giorno.
La notte precedente la festa non riuscì a dormire e ricordo ancora la partecipazione con cui seguì tutta la messa celebrata da un vescovo missionario solo per lui e la nostra famiglia al completo.
Anche i miei colleghi di lavoro erano molto vicini a Giorgio: quando lo portavo al laboratorio si sentiva come in famiglia.
Tutto questo gli diede sempre più sicurezza, gioia di fare e fiducia in sé e verso tutti.
Quando per ragioni di lavoro dovevo assentarmi per qualche giorno, Giorgio rientrava in famiglia viaggiando solo con la corriera di linea, essendo la stazione nella vicinanza della casa, che ben conosceva. Inizialmente il ragazzo era timoroso, ma sapevo che l’autista lo accoglieva e lo seguiva. Giorgio piano piano progrediva in sicurezza e socievolezza.
Di nuovo problemi del mio lavoro si intrecciarono con la problematica del mio Giorgio.
Per ragioni professionali ero spesso a Roma — sembrava che tutto il laboratorio dovesse trasferirsi in quella città, e già ero alla ricerca di come provvedere anche lì al mio Giorgio — ed ecco che incontrai Maria Luisa Menegotto, una mamma che con altre famiglie ed amici aveva costituito l’Associazione delle Famiglie di Fanciulli Subnormali, l’ANFFAS.
Fu un incontro veramente provvidenziale. La signora Menegotto mi propose, come impegno doveroso, di costituire a Piacenza una sezione dell’Associazione, per unire le famiglie interessate, per studiare insieme i tanti problemi dei nostri ragazzi che perduravano, sempre gravi, urgenti e senza risposta, per cercare insieme quali risoluzioni e quale cammino fare per loro.
Confesso che l’impegno, tanto nuovo, mi spaventava. Il lavoro quotidiano, l’impegno di Giorgio che assorbiva il resto della giornata, il rientro dei fine settimana in famiglia, non lasciavano tempo per avere conoscenze nella città dove risiedevo.
Però sentivo una forte responsabilità, perché capivo come fosse necessario venir incontro a tante famiglie le cui difficoltà ben conoscevo per esperienza diretta. Anche in questa circostanza il Signore mi guidò: frequentando gli incontri di preghiera dei laureati cattolici, conobbi le persone capaci di aiutarmi.
Siamo nel 1966: in un incontro presso una famiglia si forma il comitato promotore, dopo un mese la prima assemblea, quindi la costituzione della Sezione Provinciale ANFFaS di Piacenza. In pochi mesi ho l’occasione di incontrare tante famiglie interessate, di scoprire quanto numerosi sono i ragazzi piccoli e grandi nelle famiglie, soli, isolati, senza alcuna possibilità di una scuola o di un laboratorio che li accogliesse e li aiutasse a crescere, a scoprire le loro capacità, a usarle, a divenire persone capaci e felici di sentirsi accolte e amate.
Ci sentiamo spronati, io, le famiglie e tanti amici a camminare in fretta.
Nell’autunno dello stesso anno, diamo inizio alle attività del Laboratorio-Scuola per 36 ragazzi grandi, nei locali dell’Asilo Uttini, concesso generosamente dall’Arcivescovo Malchiodo, che veramente portava in cuore le sofferenze dei ragazzi e dei loro famigliari.
In pochi anni i ragazzi diventano più di cento. Si vede la gioia fiorire in loro giorno dopo giorno! Anche le famiglie riscoprono sempre più la serenità nel vedere i loro ragazzi piccoli e grandi crescere, imparare sia come scuola che come lavoro, felici di prendere coscienza, di saper fare, di diventare più autonomi, desiderosi di fare di più per il susseguirsi di nuovi interessi.
Anche il mio Giorgio guadagna moltissimo in tutto, per la ricchezza degli impegni e per il rapporto costruttivo con tanti amici, con gli insegnanti e con tante famiglie che sempre seguono le attività.
Si può capire quanto il tutto costituisca un impegno ben complesso e vasto: la formazione del Centro richiede rapporti con le autorità della città, della regione, talvolta dei ministeri, prima per sensibilizzarle, poi per avere le dovute risposte concrete con autorizzazioni e sovvenzioni; inoltre si deve seguire l’organizzazione delle attività e il loro svolgersi nel Centro. Mi è sempre più difficile conciliare tutti questi impegni con l’attività professionale. Dopo un anno di vita del Centro matura la decisione di lasciare definitivamente la mia professione nel campo della ricerca per quello dei più piccoli, che non sanno parlare e farsi ascoltare e farsi accogliere perché troppo deboli. È un campo molto ricco e molto vasto, che dà tante gioie e richiede tanto sacrificio, ma non lo percorriamo soli, perché a ogni «piccolo» che incontriamo ed amiamo è Gesù stesso che ci insegna ad amare di un amore gratuito e ci sprona a donargli tutti noi stessi attraverso i più piccoli.
Lasciata la professione nel 1968, il mio impegno presso il «Laboratorio- Scuola ANFFaS» procede sino al 1975, anno in cui il Centro viene assunto in gestione dalle Autorità Pubbliche come era loro dovere, anche se questo molto spesso avviene in chiave più politica che in spirito di servizio.
Terminato l’impegno presso il Centro di Piacenza ecco una nuova svolta; con Giorgio e la mamma ci trasferiamo a Forlì in una comunità: la Casa famiglia dell’Opera Don Pippo. Possiamo così rispondere ad un altro problema molto grave e di difficile soluzione: dare la famiglia a chi è senza famiglia ed è in difficoltà e a chi, per le sue difficoltà, non può essere seguito dalla sua stessa famiglia.
Ora, dopo otto anni di vita comunitaria, posso dire che il Signore nel suo disegno ci ha condotto per mano e, attraverso Giorgio, non ha scelto per i suoi piccoli me sola ma anche la mia mamma. È stata una nonna tanta amata e la sua presenza — ci ha lasciato nel luglio scorso — è ancora viva nel cuore delle ragazze. È stata una conferma che i «piccoli» hanno bisogno di avere non solo la mamma ma anche la nonna, e da lei si rifugiano quando sono in difficoltà. Forse perché la nonna sa capire più nel profondo e sa accogliere senza mai chiedere. Come la mia mamma ha amato Giorgio, così ha amato tutti i ragazzi di Piacenza prima, e dopo tutte le ragazze di Forlì. Ella è sempre stata serena per il futuro di Giorgio e l’aver dato a lei tale tranquillità è per me motivo di gioia profonda.
E in coscienza oggi sento di poter pregare: Grazie Signore, che mi hai donato il mio Giorgio e per lui, mi hai condotto su un cammino talvolta duro, difficile, ma sempre ricco di tanto amore.
– Franca Cremonesi, 1985
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.9, 1985
SOMMARIO
Editoriale
Voci di fratelli e sorelle di Mariangela Bertolini
Articoli
Care sorelle, cari fratelli vi scrivo di Marie-Odile Réthoré
Piano piano notai che Sergio era differente di Francesca
Non solo tutto l’anno, ma tutti gli anni di Paolo Nardini
Spesso però mi regala il suo prezioso sorriso F.M.
Forse per questo non sono andato via di Gianluca
Mio fratello era handicappato di Mons. Peter Birch
Ho scelto mio fratello di Franca Cremonesi
Ma dopo l'incontro non li vedo più di Elisabetta
"Crescere insieme" di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto n. 9
Vita Fede e Luce n. 9
Libri
L’Abbé Pierre – Una mano tesa agli emarginati di Bernard Chevalier
La paura di amare – La persona handicappata nella società di Jean Vanier