La scrittrice, Luana De Vita, racconta in dieci capitoli, poco più di 120 pagine, la sua vicenda familiare di figlia di un uomo paziente psichiatrico. Narra senza un ordine ben preciso, ma intorno ad’alcuni temi portanti, circa quaranta anni di vita passati tra depressione e manie, eccessi di violenza ed alcolismo di un padre fortemente amato ed odiato.

Dall’analisi cruda di chi ha vissuto sulla propria pelle questo dramma tra commissariati, cliniche e pronto soccorsi, emergono l’indifferenza e l’ignoranza della società, l’arroganza e la non accoglienza del sistema sanitario italiano verso la famiglia oltre che verso il malato.

La famiglia gioca un ruolo determinante, tutto le viene praticamente affidato, consegnato, senza che le venga mai ufficialmente e formalmente riconosciuto qualcosa se non le responsabilità: “Quando non siamo la causa siamo assenti. Se non siamo assenti, siamo poco disponibili. Se non siamo disponibili siamo radicali. Comunque non esistiamo se non per scaricare colpe e responsabilità”.

Paradossale poi la dichiarazione di un medico psichiatra che tirava le somme dell’applicazione della legge 180:Le famiglie dei malati hanno tenuto, non hanno abbandonato quasi nessuno, hanno fatto quello che forse solo la famiglia italiana poteva fare”. E quindi sono le famiglie che hanno “tenuto” e non le strutture che dovevano essere realizzate per sopperire alla chiusura dei manicomi.

L’Autrice non esita ad addossare responsabilità ad un sistema sanitario nazionale incapace di organizzare ed accogliere come dovrebbe secondo i principi “sacrosanti” della legge 180. Questi restano “principi” e la loro indispensabile traduzione operativa è arrivata se non in sporadici casi sparsi qua e là nel territorio italiano. Questo rende la situazione insostenibile: un paziente psichiatrico come il padre della scrittrice “non è in condizione di vivere in una famiglia perché ha bisogno di persone preparate ad interagire con le sue crisi, con le sue manie, e con le sue ossessionanti pretese… il disagio psichico all’interno delle mura domestiche può essere addirittura enfatizzato. Da un solo malato potremmo ottenerne addirittura quattro o cinque, tutti i suoi familiari, costretti dalla negligenza e dall’incapacità del sistema sanitario nazionale ad occuparsi di creature orribili, che non esistono manifestatamente e che tormentano i nostri cari“.

L’autrice affronta la sua storia da varie angolature dando un’idea precisa di come una famiglia — soprattutto le donne della famiglia — abbia vissuto con la malattia psichiatrica, contenendola per quanto possibile; accettando di confrontarsi con i vari cambiamenti nell’approccio terapeutico e farmacologico nel corso degli anni e spesso con l’arroganza dei medici; parlando non solo della propria vicenda ma anche di quella di altri, divenuti purtroppo casi di cronaca drammatici, visti comunque dal punto di vista di familiare di un malato psichiatrico. Insomma, tutti argomenti, o meglio fatti di persone che vivono forse vicino a noi, che non dovremmo ignorare o ai quali non dovremmo rimanere indifferenti.

Cristina Tersigni, 2004

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.87

Sommario

Editoriale

L'iniezione di Uscobupt di M. Bertolini

Parliamo di lavoro

Il collocamento mirato di T. Cabras
Storia di Giorgio e del suo lavoro di P. Tardonato

Articoli

Benedetta mi ha convertito di Giampaolo
Il film «Le chiavi di casa» di T. Cabras
La barca bianca di J. Larsen di Silvia Gusmano
Associazione “Invitati alla festa” di Cyril Donille
Una Casa-famiglia dove la maternità ritorna gioia di Giulia Galeotti
Come guardano i bambini di una mamma
Sguardo come?

Rubriche

Dialogo aperto

Libri

Sempre Capricci!, R. Giudetti, M. Lecci
Bianco su nero, R. Gallego
Mio padre è un chicco di grano, L. De Vita
Francesca Cabrini, L. Scaraffia

Mio padre è un chicco di grano – Recensione ultima modifica: 2004-09-13T16:58:06+00:00 da Cristina Tersigni

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