«Quale logica induce a tenere in una prigione una persona con evidente disagio mentale, seppure reo di aver commesso un reato? E con quale scopo lo si affida a personale di sorveglianza privo delle competenze per un corretto trattamento, causando un ulteriore disagio agli assistenti penitenziari, costretti a fronteggiare problematiche per le quali non sono preparati, e per gli altri detenuti?». Sono precise le domande poste da Sergio Abis in Chi sbaglia paga. La voce dei detenuti e l’esperienza di un carcere alternativo (Chiarelettere 2020), in cui l’autore – presentando la comunità La Collina fondata nel 1994 da don Ettore Cannavera – riflette anche sul senso e lo scopo del carcere come è attualmente concepito.
Aperta 27 anni fa a Serdiana nella campagna vicino Cagliari, La Collina ospita detenuti a cui il magistrato di sorveglianza ha concesso una misura alternativa al carcere. Seppur trattandosi di una prigione a tutti gli effetti, qui la vita è lavoro, esempio, ascolto, educazione, legalità e cultura; un carcere utile e sensato, insomma, il cui fine è realmente la rieducazione del condannato in netta contrapposizione con la galera segregativa ordinaria. Una galera illogica, inutile, costosissima e disumana. «Ci volevano duecentomila anni e l’appellativo di sapiens – scrive don Cannavera nel libro – per immaginare un’istituzione che anziché cercare di rieducare i colpevoli di reati e riconciliarli con la società, li immette in un sistema che, nella migliore delle ipotesi, li lascia come sono, ma in realtà li peggiora?». Basta un dato: mentre il 70 per cento dei detenuti che esce dal carcere tradizionale vi rientra avendo commesso nuovi reati, a La Collina la recidiva è del 4 per cento.
Carcere alternativo, però, non significa libertà: che si viva ai domiciliari, in comunità, in affidamento ai servizi sociali la pena va comunque scontata seguendo le prescrizioni del magistrato di sorveglianza su tempi e modi di espiazione. La differenza con la prigione classica sta però non solo nei modi ma soprattutto nelle finalità, sostanzialmente riassumibili nel voler davvero rieducare il colpevole.
Le osservazioni che Abis fa rispetto alla presenza in carcere delle persone con problemi mentali illuminano un risvolto del sistema detentivo italiano su cui di solito pochi si soffermano. Eppure si tratta di un risvolto anche numericamente tutt’altro che marginale, perché, sebbene sia molto difficile reperire statistiche precise, «lontano dai microfoni i direttori delle case circondariali ammettono che mediamente in Italia il 30 per cento» dei detenuti è rappresentato da psicolabili.
«Il disagio mentale costretto in carcere – prosegue Abis – è un’orrenda violazione dei diritti fondamentali dell’essere umano, che dovrebbe essere curato, non rinchiuso in una cella, e affidato a medici e personale competenti per la terapia più adatta al suo disturbo. (…) Quale sarebbe il percorso riabilitativo che una prigione può proporre a uno psicolabile? E quali vantaggi per la società?».
Un problema questo non certo confinato all’Italia, come dimostra la tragica vicenda di Lisa Montgomery, omicida 53enne giustiziata il 13 gennaio 2020 negli Stati Uniti, nonostante i suoi disturbi mentali (violentata e seviziata da bambina, psicolabile mai curata, le sue condizioni sono degenerate a tal punto da non essere stata nemmeno in grado di comprende il perché dell’iniezione letale). Confondendo ancora una volta la vendetta con la giustizia e minacciando l’essenza stessa dell’essere comunità, questa drammatica vicenda solleva osservazioni che emergono in Il diritto di opporsi. Una storia di giustizia e redenzione (Fazi 2019, traduzione di Michele Zurlo) di Bryan Stevenson, l’avvocato americano fondatore dell’Equal Justice Initiative. Si tratta di un’organizzazione senza scopo di lucro impegnata a porre fine all’incarcerazione di massa e alle punizioni eccessive, a sfidare l’ingiustizia razziale ed economica, e a proteggere i diritti umani delle persone più deboli e vulnerabili.
Tornando al nostro Paese, alle domande di Abis fanno da contraltare nel libro le numerosissime lettere dei detenuti ricevute negli anni da don Cannavera. Lettere – scrive Gerardo Colombo nell’introduzione – che «ci fanno capire quanto la persona in carcere sia sostanzialmente abbandonata». Infatti dietro la richiesta di piccole cose come sigarette, cibo, abiti o il necessario per l’igiene personale, quel che i detenuti chiedono è in realtà la possibilità di essere ascoltati. Di comunicare per cercare di uscire dall’emarginazione, dalla solitudine, dall’esclusione.
Necessità che diventano ancor più stringenti in presenza del disagio mentale. Che è davvero il disagio degli ultimi tra gli ultimi.
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