Non è un libro sulla disabilità, Città sommersa (Bompiani 2020) di Marta Barone, splendido romanzo-biografia che racconta una figlia alla ricerca del padre. Un padre con nome e cognome, un padre conosciuto, un padre presente, un padre che però muore prima di essersi davvero rivelato alla figlia ventiquattrenne. Perché quando, dopo la sua scomparsa nel 2011, la ragazza trova alcuni documenti giudiziari di un processo degli anni Ottanta a carico dell’uomo (l’accusa è di partecipazione a banda armata), Marta Barone si trova davanti un muro di domande a cui deve trovare risposta. E così, paradossalmente, quella morte che le ha sottratto il genitore, in qualche modo – proprio tramite quel muro – glielo restituisce (“Avrei voluto che questa storia me la raccontasse lui. Avrei voluto avere il tempo di sentirla. Ma in un certo senso sono consapevole che il libro esiste perché non c’è più l’uomo”).
In questo viaggio alla scoperta della vita di suo padre Leonardo, e di Torino (pagina dopo pagina l’uomo e la città le si srotolano davanti rivelando lati sempre guardati ma mai visti), Marta Barone incappa nella storia di Villa Azzurra, il tristemente celebre manicomio minorile che di incantevole aveva solo il nome. Come avveniva nella gran parte delle strutture simili sparse per la penisola infatti, in manicomio ci finivano i bambini provenienti da famiglie analfabete o poverissime, bimbi ritenuti “ineducabili”, vittime soprattutto della mancanza di opportunità e “curati” con atroci cocktail composti da violenze di ogni tipo – sessuali, psicologiche, fisiche, mediche.
Spiccavano in particolare i metodi del primario del manicomio torinese, Giorgio Coda (che verrà poi processato e condannato per maltrattamenti). “Per far sfogare i ragazzini più turbolenti – scrive Marta Barone – li faceva lottare tra loro come alle gare di cani, finché non crollavano, feriti e sfiniti; ma la sua specialità, quella che gli valse la direzione di Villa Azzurra, era l’elettroshock. Per questo sarebbe rimasto per sempre l’Elettricista”. Nel luglio 1970 un fotografo dell’Espresso riuscì a entrare nella struttura. “Vagò per i reparti senza che nessuno se ne accorgesse. Fotografò bambini legati, coperti di mosche, senza espressione (…) Fotografò una bambina che si chiamava Maria, e il suo ritratto divenne la foto principale del reportage. Aveva i capelli corti, il viso dolce, il corpo completamente nudo, e i polsi e le caviglie legati come in una crocifissione”. Andando anni dopo alla ricerca di suo padre, Marta Barone incappa in molti reduci di Villa Azzurra, spesso “incapaci di liberarsi di ciò che l’istituzione aveva fatto loro” – anche perché, come non di rado succede, dopo lo scandalo i piccoli vennero liberati in modo “casuale e insensato”: traditi due volte insomma. Ebbene, di alcuni piccoli pazienti fin dagli anni Ottanta si era occupata una cooperativa che Marta Barone conosceva bene perché vi aveva lavorato suo padre.
Non è solo uno squarcio nella storia di Torino, e dell’Italia intera, la storia nella storia degli ex-internati di Villa Azzurra: è un segmento importante nella storia di Leonardo Barone. “Se manca la parte dopo – dice alla scrittrice una delle tante persone con cui parlerà per scrivere Città sommersa, in questo caso un vecchio compagno dell’uomo – la parte in cui tuo padre è andato a occuparsi dei matti… è come se mancasse un pezzo, capisci? Se lui fosse caduto, se fosse caduto davvero, si sarebbe messo a fare soldi! (…) Tu devi capire che non è caduto, Marta. Lui è stato fino all’ultimo, proprio fino all’ultimo, con quelli con cui doveva stare”.
Sofferto, vivo, questo di Marta Barone è un libro stupendo, di quelli che continuano a ronzarti dentro, ad accompagnarti con la forza limpida (e un po’ scontrosa, a volte) della fragilità. Della fragilità vera, quella che porta la vita mentre segue le figlie e guida i padri; che porta la vita mentre guida le figlie e segue i padri.
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