La lingua che apprendiamo da piccoli è definita lingua madre perché spesso, anche se non sempre, è la madre a tramandare il proprio linguaggio ai figli. La lingua madre dello scrittore Louis Wolfson è l’inglese: è nato a New York nel 1931. Eppure Wolfson ha pubblicato i suoi libri in francese e ne ha sempre impedito la traduzione in inglese.
Da giovane gli fu diagnosticata una forma di schizofrenia che gli rendeva insopportabile ascoltare la voce e le parole della madre. Per adattarsi alla sua malattia, adattò innanzi tutto il suo linguaggio, attraverso un meccanismo molto sofisticato: studiò altre lingue per poter sostituire, nella sua testa, le parole inglesi che leggeva e ascoltava in parole simili scelte tra le altre lingue apprese. Questa strana bolla linguistica, portata avanti assieme a un fermo rifiuto nell’uso dell’inglese madrelingua, fu raccontata in un libro scritto in francese e pubblicato con un certo successo in Francia nel 1970, Le Schizo et les langues. Ma il successo non è mai stato un assillo o un obiettivo per Wolfson. Che fine abbia fatto oggi ce lo mostra Duccio Fabbri che dopo una lunga carriera come aiuto regista ha esordito nella regia con Squizo, in cui non solo prova a raccontare la vicenda umana dello scrittore, ma mette in scena anche la sua amicizia con lui; un rapporto che, dopo non pochi patemi, ha portato alla realizzazione del film.
Wolfson ora vive a Porto Rico, è estremamente riservato, ha l’aspetto di un vecchio allampanato che vive fuori dal tempo. Sembra quasi che non si renda conto che ci sia una cinepresa puntata verso di lui, invece ne è perfettamente consapevole, tanto da avere reso la produzione una corsa a ostacoli, tra dinieghi continui, pretese stilistiche, disponibilità intermittente. Perciò, nonostante il tentativo di ricostruire artificialmente con degli attori la giovinezza problematica dello scrittore, il vero cuore del film è il pedinamento del Wolfson contemporaneo, che parla poco e non lo fa mai in inglese – e per questo comunica in modo imperfetto anche col regista – appare trascurato come un senzatetto, insomma non fa trasparire in nulla il meraviglioso meccanismo mentale che lo ha reso artista come forma di sopravvivenza al suo male. Wolfson è un mistero anche per il regista, che prova a restituirne un ritratto già sapendo che il mistero non è filmabile; ma se l’enigma resta irrisolto, il fascino di questa figura poco conosciuta lascia il segno.
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