Tutto e niente
«Parto distocico» mi dice il medico in corridoio, evitando di guardarmi. Obeso, il respiro affannoso sotto i baffi spioventi, le pupille fisse, sembra un grosso topo in procinto di fuggire.
«Cioè?»
«Distocico, gliel’ho detto».
Alza gli occhi su di me, per avere la conferma che non ho capito.
«Che complicazioni ci sono?»
«Tutto e niente. Il rischio più grave è l’anossia».
«Cioè che non respiri?»
«In un certo senso» mi concede infastidito. «Comunque il battito è regolare, per ora non è il caso di intervenire.»
«Intervenire come?»
«Taglio cesareo. Però il vostro ginecologo non vuole. È contrario».
La sfera di cristallo
È l’immagine prediletta da quei medici che dicono di non averla, quando non vogliono pronunciarsi sul futuro. «Avessi la sfera di cristallo!» sospirano, corrugando la fronte con una perplessità che immaginano sapiente. Oppure: «Mica abbiamo la sfera di cristallo!», con una intonazione più rozza e corporativa. Li ho odiati per anni. Si rifugiano dietro una metafora proverbiale, stremata dall’uso, svuotata di ogni attendibilità anche fiabesca, come dovessero difendersi da pretese insensate, mentre sono solo richieste d’aiuto, appelli alla speranza, fughe nel futuro per liberarsi dalla disperazione del presente. E ricorrono ad una frase imparata magari da un primario (le fatuità dei migliori sono le testimonianze che ricordano più tenacemente), per annettersene, in incognito, l’autorità. L’alibi della deontologia professionale dovrebbe mascherare questa interruzione del dialogo. Ma i pazienti, e i loro parenti, non vi hanno mai creduto. Nella sfera di cristallo intravedono non ì’aleatorietà di divinare il futuro, ma la viltà di sottrarsi a una analisi penosa e dura, a un confronto impegnativo e doloroso. Quei medici, più competenti e umani di loro, che sanno affrontarlo, non se ne sono mai pentiti.
Ricordo il professore che, tre mesi dopo il parto, dietro la scrivania del suo studio, ci aveva rivelato la verità, ovvero quello che pensava. Aveva riflettuto a lungo prima di rispondere, in una penombra carica di angoscia. Non era ricorso alla sfera di cristallo. Più esperto di medicina e di uomini che tanti suoi colleghi, ci aveva detto, con voce pacata e ferma, guardandoci negli occhi:
«Non posso prevedere come diventerà vostro figlio. Posso fare alcune ipotesi ragionevoli.
«La più ottimistica. La sofferenza cerebrale, dovuta al forcipe e alla scarsità di ossigeno al momento della nascita, si riassorbe. Non ha lasciato tracce consistenti. I disturbi possono essere marginali. Non è l’ipotesi più probabile.
«Vediamo l’ipotesi mediana. Le lesioni cerebrali, anche se non profonde, hanno intaccato i centri motori e quelli del linguaggio. Il bambino tarda a parlare, se a tre anni un suo coetaneo usa mille parole, lui ne sa dire cento. L’andatura sarà imperfetta, la manualità difettosa. Però è intelligente, presenterà solo forme di immaturità dovute anche alla parzialità della sua esperienza.
«Passiamo all’ipotesi più negativa. L’elettroencefalogramma è troppo precoce per essere attendibile e non ha rivelato la gravità delle lesioni. Le alterazioni della motilità e della intelligenza sono più forti del temuto. Non è l’ipotesi più probabile, secondo me.
«Però posso sbagliarmi. Voi dovete vivere giorno per giorno, non dovete pensare ossessivamente al futuro. Sarà una esperienza durissima, eppure non la deprecherete. Ne uscirete migliorati.
«Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno è la mia esperienza. Non posso dirvi altro».
Grazie, a distanza di trent’anni.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.72
Sommario
Editoriale
Un Natale speciale di M. Bertolini
Medici e disabilità
Medici o stregoni? di C. F. Klieman
Perché non ci capiamo? di Adriana Duci
Nati due volte di Giuseppe Pontiggia
Blessings di Mary Craig
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