«Prof, ci fa vedere il gatto?». Si erano passati la voce, mi dice l’amica insegnante. Il giorno precedente, mentre faceva lezione a una prima, il suo gatto era salito sulla cattedra: e adesso anche quelli della terza volevano vederlo. Perché no, in fondo che male fa: «Eccovelo!». Applausi, tripudio. Dagli altoparlanti. Dai rettangolini del mosaico sullo schermo.
Perché avrete capito che la cattedra in realtà era il tavolo di sala nella casa della mia amica, e la lezione era telematica.
Uno dei tanti aneddoti che si raccontano su questo periodo così stordente e inaspettato, che ha costretto tutti a stare a casa, le scuole a chiudere e tutte le attività formative a essere fermate e nel quale la didattica a distanza ha permesso/promesso di mantenere continuità nella didattica, nell’incontro con gli insegnanti e con i propri compagni. Non solo, l’ingresso – virtuale ma quotidiano – nelle case dei prof, ha tessuto un’aura di nuova familiarità, una complicità positiva, un rinnovato senso di appartenenza al proprio gruppo e alla sua referenzialità.
I docenti, sostanzialmente soddisfatti di aver saputo fronteggiare una simile calamità, lasciano trasparire un certo autocompiacimento. Tutto nel senso giusto, basta non avere problemi di connessione (e alcune aree ne hanno parecchi), né di mancanza di uno spazio per sé a casa (come già spiegava Virginia Woolf), basta non avere genitori che abbiano problemi con la tecnologia (alcuni nemmeno pensavano servisse un pc a casa) o con la lingua italiana, basta non avere problemi di disagio sociale, né di essere a rischio di dispersione scolastica e basta, soprattutto, non avere problemi di disabilità.
Da un questionario su DaD (didattica a distanza) e inclusione scolastica relativo ai primi due mesi della pandemia degli studenti con disabilità – a cui hanno risposto 3.170 insegnanti naturalmente quasi solo di sostegno – è emerso che il 51% vede peggioramenti comportamentali nei propri alunni e il 62% negli apprendimenti, mentre alcuni studenti sono addirittura scomparsi dal radar della scuola.
In una lettera al Corriere della Sera la mamma di Beatrice, una bambina lombarda di quarta elementare affetta da una grave forma di epilessia farmacoresistente che ne ha compromesso anche le capacità cognitive, scrive: «Dal momento della sospensione delle lezioni a tutt’oggi, ossia in due mesi e mezzo, Beatrice non ha mai avuto alcun contatto con i suoi insegnanti curriculari mentre in 9 occasioni ha incontrato via web l’insegnante di sostegno. La sua educatrice, invece, l’ha raggiunta via web con regolarità da fine marzo, ma la Scuola non mi ha mai contattata per informarmi se il piano didattico previsto per la bambina dovesse subire qualche modifica a causa dell’isolamento, né ha fatto pervenire la necessaria rimodulazione del PEI (Piano Educativo Individualizzato) che il dirigente, nella sua ultima comunicazione, ha riferito essere stato cambiato (a nostra insaputa) e degli obiettivi per l’anno in corso sulla base dei quali Beatrice dovrebbe essere valutata. Ci sono state inviate dall’insegnante di sostegno delle schede che abbiamo cercato di far compilare a Beatrice, ma che non ci è mai stato chiesto di restituire sia per compensare la bambina dell’impegno che, nel contempo, per offrire ai suoi insegnanti un qualche elemento di valutazione. Anzi a mia esplicita richiesta, mi è stato detto che non era necessario restituirle».
Beatrice è demotivata, non vuole più fare i compiti perché nessuno li valuta, la presenza dei suoi insegnanti curriculari è completamente sostituita da quella dell’educatrice, «tanto forse lei neanche se ne accorge», una dirigenza ottusa oppone regole astratte a un effettivo confronto con la famiglia e c’è l’invito – nemmeno tanto occulto – a portare altrove i problemi se quelle regole non vanno bene.
La lettera, un vero e proprio cahiers de doléances, è specchio fedele di un disagio profondo, che può avere conseguenze di straordinaria gravità.
Il difficilissimo periodo che stiamo vivendo, però, ha un punto luce: costringe a ripensare la scuola, a volerla molto più flessibile, a lavorare soprattutto sull’idea di inclusione per la quale è importante il coinvolgimento anche dei compagni. Serve coraggio, servono insegnanti illuminati che mettano in gioco le idee più diverse. Idee piuttosto che le schede.
Bella la proposta delle “cordate”: organizzare la classe in mini gruppi di 3-4 compagni con strutture di corresponsabilità proprio come una cordata di montagna. I monti sono maestri muti – dice Goethe – alcune ore di salita fanno di un briccone e di un santo due creature quasi simili, camminare insieme, stancarsi è la via più breve per la fratellanza.
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