«Perché Hillary era sempre la damigella e mai la sposa?» si chiede James Reston junior in Fragile innocence. A Father’s Memoir of His Daughter’s Courageous Journey (Three Rivers Press, 2007) il libro in cui racconta la storia della sua terzogenita.
Nata a New York, fino a quasi due anni la bimba è vivace, socievole e chiacchierina. Improvvisamente però, nella primavera del 1983, tutto cambia. Hillary è colta da una febbre altissima e, tra grandi sofferenze, comportamenti incontrollati e crisi epilettiche, inizia un calvario di tre anni durante i quali il suo cervello verrà irrimediabilmente danneggiato: la disabilità grave è ormai parte della famiglia Reston. Le prove, però, non sono finite: dopo il cervello di Hillary, infatti, sono i suoi reni, intossicati dalle medicine, a collassare: la dialisi quotidiana complica una vita già complicata, fino a che, dopo altri lunghi anni di sofferenze, giunge il tanto atteso trapianto, che finalmente le restituirà il sorriso.
Solo che di anni di attesa per il trapianto, ce ne sono voluti tantissimi. Talmente tanti da essere troppi.
Perché alla domanda se tra i corpi malati vi siano corpi che non meritano di essere salvati perché altri lo meritano di più, o comunque lo meritano-meno, lo meritano-poi, lo meritano-se-resta-qualcosa, la risposta è: sì, ci sono. Almeno ci sono in molti stati americani.
I medici – prosegue Reston – avevano previsto un’attesa di tre anni per trovare il rene. Fu necessario attenderne otto, e cambiare stato. In Maryland (Virginia), dove la famiglia originariamente viveva, trascorsero infatti cinque anni (1993-1998) di inutile attesa. Solo un paio di volte sembrò che Hillary ce l’avesse fatta, ma la telefonata che annunciava la disponibilità di un rene compatibile si affrettava sempre ad aggiungere che la bambina era la seconda (o la terza) in lista. E immancabilmente, dopo una notte di attesa, giungeva un nuovo squillo a comunicare che il primo candidato aveva ricevuto l’organo (in un’occasione la bambina fu addirittura ricoverata, solo per essere rimandata a casa cinque ore dopo).
I coniugi Reston non la bevono, le domande bruciano. Man mano che gli anni passano, il padre è sempre più convinto che qualcosa di sospetto stia accadendo. E il dubbio diventa certezza quando Hillary brucia ogni record: è colei che sta da più tempo in lista d’attesa. Può essere che gli altri le passino avanti «perché è handicappata»? È per questo che il rene non si trova? «Gli anni passavano, Hillary si andava spegnendo di giorno in giorno ma nulla accadeva. Forse qualcuno aveva messo un asterisco vicino al nome di mia figlia?».
Poi, la scoperta. Negli Stati Uniti ogni singolo stato ha le sue liste d’attesa, le sue regole, le sue priorità. E alcune liste d’attesa, alcune regole e priorità sottintendono che il prezioso organo sarebbe stato sprecato in lei. Un sistema di distribuzione degli organi che «puzza di marcio».
«Dopo cinque anni di sofferenza e rabbia, lessi un articolo su “USA Today” che, tra le righe, suggeriva che nel Midwest le lista d’attesa procedevano più spedite. Gli Stati Uniti sono infatti divisi in undici regioni. La nostra, fornita di dieci centri di raccolta di organi, comprendeva Virginia, Carolina del nord e del sud, Kentucky e Tennessee. La regione 8 – comprendente Iowa, Missouri, Kansas, Nebraska, Colorado e Wyoming – ha solo quattro centri (il più importante dei quali a Iowa City) con un’attesa di meno di due anni». Non resta che trasferirsi.
Così, nel dicembre del 2000 i genitori portano Hillary a Iowa City, restando subito favorevolmente colpiti dalle strutture. Dopo una visita accurata, il medico dice che la accetterà nella lista: «It’s the humane thing to do». La cosa umana da fare? Una lista di esseri umani? «Nessun medico a Washington si era mai espresso in questi termini».
Finalmente arriva la telefonata giusta, alle 5.30 del mattino. È Barbara Schanbacher, la coordinatrice dei trapianti dell’ospedale universitario di Iowa Hospital: un rene è disponibile, nel dramma assoluto della morte di qualcuno che diventa la salvezza di un altro. «Nell’ultimo anno nostra figlia non aveva praticamente mai sorriso. Ora non smetteva un attimo. (…) Improvvisamente ci fu chiaro quanto aveva sofferto. Improvvisamente, miracolosamente, era stata liberata dal dolore».
La tentazione di discriminare, purtroppo, è venuta anche a persone a noi geograficamente vicine. Una denuncia molto forte in questo senso, ad esempio, si ebbe esattamente dieci anni fa (aprile 2010) quando sull’«American Journal of Transplantation» i medici Nicola Panocchia e Maurizio Bossola (Ospedale Gemelli, Roma), insieme allo psicologo Giacomo Vivanti (Università della California), denunciarono le «controindicazioni assolute» per essere riceventi di organi, fissate dalle linee-guida per la valutazione e l’assistenza psicologica in area donazione-trapianto della Regione Veneto (marzo 2009). Nell’allegato A, infatti, tra le tredici cause indicate, vi erano anche danni cerebrali irreversibili, ritardo mentale (fissato nel quoziente intellettivo inferiore a 50) e tentativo recente di suicidio. Se tutte le regioni prevedono come unico criterio di esclusione la malattia psichiatrica grave, la controindicazione fissata dalla Regione Veneto riguardava le malattie mentali tout court. Lo scandalo fu enorme. Raccontando la vicenda di Stefano (un bimbo con un handicap mentale, dializzato e poi trapiantato), Giuseppe Remuzzi, medico specializzato in trapianti, si chiese dalle pagine del «Corriere della Sera»: «Che c’entra l’intelligenza col diritto a vivere la propria vita, ciascuno con i talenti che ha?».
Poi la giunta veneta emanò (3 giugno 2010) una circolare applicativa relativa all’allegato A nella quale non comparivano più le controindicazioni assolute, ma anzi si aggiungeva che il documento era «rivolto a garantire, in ogni possibile condizione, il più alto livello assistenziale possibile». Quindi nel caso specifico tutto si risolse per il meglio, ma il problema di fondo resta. Perché resta – come sta dimostrando la crisi planetaria causata dal covid-19 – la tentazione di classificare le persone tra persone di serie A e persone di serie B.
Fragile innocence si chiude con la grande festa per i 21 anni di Hillary: da ogni parte degli Stati Uniti, la famiglia chiama a raccolta tutte le persone che ella ha conosciuto – insegnanti, infermieri, medici, assistenti sociali, vicini di casa, amici dei figli… È una meravigliosa sorpresa: man mano che li vede entrare dalla porta, gli occhi di Hillary si sgranano sempre più per l’incredulità. Sono ventuno anni di “piena umanità” che vengono festeggiati a casa Reston. La speranza è che la società possa davvero riconoscerla questa piena umanità. Che per lo scrittore davvero “è l’ultima frontiera dei diritti civili”.
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