Ho letto con interesse l’articolo di Rita Massi (“Come dirlo” n. 141) e non si può che essere d’accordo sul fatto che qualunque termine può essere offensivo o meno, dipende dal contesto e dall’intenzionalità di chi lo pronuncia.
Però vorrei esprimere una piccola riserva.
Durante il mio primo anno d’insegnamento da incaricata annuale, nel liceo scientifico di Caluso (TO), il preside, prof Del Giudice, forse preoccupato dalla giovane età del gruppetto delle nuove insegnanti, organizzò un corso di aggiornamento didattico – disciplinare; lui stesso tenne la prima lezione.
S’iniziò dall’appello.
Nel caso avessimo avuto dubbi sulla pronuncia di un cognome (allora si trattava solo di accenti, non c’erano non italiani in classe), dovevamo chiedere all’interessato la dizione giusta e scusarci quando la sbagliavamo.
Mai accusare di essere maleducato o peggio stupido ma sempre «ti stai comportando come un maleducato» o «come uno sciocco» ecc.
Evitare anche timido. Parlando con i genitori, al classico «suo figlio è molto timido«, era preferibile «è un ragazzo riservato, lasciamolo crescere…».
Il nostro essere un riferimento doveva cominciare proprio dal nostro linguaggio.
Anni dopo, leggendo e ascoltando Jean Vanier, ho ritrovato lo stesso invito a non abbassare la guardia nemmeno nell’uso delle parole: «Si dice persona con disabilità non persona disabile, perché la disabilità della persona non la esaurisce».
Sappiamo che la comunicazione non è solo verbale, ci sono gli sguardi, l’intonazione, il contesto, i silenzi, la consuetudine, i gesti e altro ancora, per non parlare di situazioni oggettivamente gravi, complesse.
Ma se l’attenzione a quello che si dice, ai termini che si scelgono, fosse un esercizio continuo arriveremmo, forse, alla delicatezza d’animo, alla leggerezza “profonda” che sa esprimere senza ferire.
Come gli uccellini che si poggiano sul rametto senza inclinarlo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.143, 2015