Questa è una storia vera che potrebbe iniziare così: c era una volta…
C’era una volta una bella bambina bruna di nome Sabina che viveva felice con i genitori e i fratelli in una grande casa di un piccolo paese: San Benedetto dei Marsi in provincia di Aquila. Una vecchia fotografia ci mostra Sabina, a cinque o sei anni, con il vestitino della domenica, seria attenta mentre tiene per mano saldamente la sorellina più piccola. Entrambe sono in piedi, su due seggiole vicine, guardano il fotografo, un po’ preoccupate per l’insolito avvenimento: la fotografia ufficiale. È l’anno 1922, o il 1923: bisogna guardarla con attenzione questa piccola Sabina, bisogna scrutare i suoi occhi seri, luminosi e intensi perché li vediamo qui per l’ultima volta.
Infatti la storia continua così: Quando ha sette anni, nel 1924, Sabina è colpita da una grave malattia: meningite. Era il lunedì della settimana santa e così racconterà lei stessa quei giorni ai suoi amici del «Mondo silente» tanti anni più tardi: «…il giovedì santo sera gettai intorno l’ultimo sguardo nella camera, la mattina dopo udii l’ultimo grido, seguito da una sbattuta di porta: da allora niente più». Perde conoscenza e si ritrova, dopo una settimana dall’inizio della malattia, sola in un lettino del policlinico Umberto I di Roma. Sabina è disorientata, non sa cosa le succeda. Tenta di scavalcare la finestra per fuggire ma, come racconta la sorella: «fu ripresa in tempo dall’infermiera che “delicatamente» la legò al lettino perché non scappasse, anziché tenerla, magari, in braccio».
Sabina torna a casa dopo due mesi: ha solo sette anni, ha interrotto la seconda elementare e il suo banco resterà vuoto. È ancora Sabina che così ricorda quel momento di vita: «…Quel po’ di luce distinta che percepivo ancora bastava a favorirmi l’illusione di vedere, come pure il ronzio nelle orecchie contribuiva a farmi credere di sentire rumori e voci: pure sapevo di non cogliere le forme e i colori, né le parole, ma non volevo dirmelo». Le vicine vengono a trovare la piccola ammalata, il fratello gliele indica e la invita a dirne il nome: Sabina non ne riconosce nessuna…
C’era una volta una bambina molto coraggiosa che, invece di piangere e disperarsi, disse allora al fratellino:
«Prendi il mio quaderno di scuola, un lapis (una matita) e portami (guidami) la mano scrivendo i loro nomi». Così fu fatto. Il fratello scrisse adagio e chiaro guidando la mano di Sabina e le visitatrici furono identificate. «Questo unico mezzo di comunicazione servì per l’indispensabile e per farmi tardare a riflettere sulla situazione. Alla fine però, dovetti pure dirmelo franco: ero cieca e sorda — Ma allora perché non mi prendesse paura ero già armata di una speranza e cioè di ritornare a Roma: con cure prodigiose della scienza avrei riacquistato la vista e l’udito. Con quest’idea confortante, malgrado il passato trattamento (o maltrattamento) di medici ed infermiere che avevo preso per aguzzini, volentieri mi lasciai condurre di nuovo a Roma».
Nell’attesa del ritorno alla grande città, la vita riprende nella casa di San Benedetto; i genitori si fanno forza l’un l’altro, trovano il coraggio di accettare l’immenso dolore che al primo momento li aveva come annientati. La mamma istintivamente comprende che niente si deve proibire alla sua bambina di ciò che ancora può e desidera fare: e Sabina, circondata dal buio e dal silenzio, cuce e ricama, lava i piatti e i panni, bada ai fratellini. E tuttavia, scriverà Sabina: «Mi ritrovai rinchiusa in me stessa come un eremita nel mezzo della società; sola con le mie idee e i miei capricci…»
È il 1926: Sabina ha dieci anni quando viene ammessa all’Istituto Regina Margherita di Savoia dove il prof. Augusto Romagnoli, da cui la scuola in seguito prenderà il nome, proprio in quell’anno aveva iniziato a mettere in atto il suo metodo di educazione per i ciechi. Sabina fu la prima alunna ed ebbe per matricola il numero uno che lei stessa ricamerà a punto erba in tutti i suoi indumenti. Fu così che il celebre professore, rimasto cieco poco dopo la nascita, e la bambina di San Benedetto dei Marsi, dal cuore pieno di speranza e di coraggio, si incontrarono e strinsero un legame di affetto e di stima che durerà per sempre. Scriverà infatti Sabina: «…dal primo momento mi tracciò sul palmo della mano le parole in corsivo facendosi ben capire, mi infuse subito fiducia, né mi deluse mai…». Il professore, dal canto suo, giudicò subito Sabina non solo recuperabile ma intelligentissima, sveglia e desiderosa di conoscere tutti i perché del mondo.
Fu necessario innanzitutto stabilire una comunicazione immediata con la bambina e il professore la guidò, insieme alle insegnanti, dalla parola scritta sulla mano all’uso dell’alfabeto Malossi. Infine con il sistema di scrittura Braille potè seguire lo svolgimento del programma di studio. Contemporaneamente le maestre la guidavano, con il metodo Romagnoli, alla pronuncia delle parole in italiano corretto.
Sabina lasciò l’istituto definitivamente nel 1938. In quei dodici anni era cresciuta fisicamente, intellettualmente e moralmente. Aveva scoperto che le «cure prodigiose» che aveva sperato non esistevano e aveva accettato serenamente l’idea di restare cieca e sorda per la vita. Ma insieme aveva scoperto un mondo di cose che non le erano vietate: aveva letto, studiato, imparato ad esprimere con chiarezza il suo pensiero, aveva approfondito le conoscenze religiose e la sua fede in Dio. Contemporaneamente aveva acquisito abilità e sicurezza nei lavori manuali e si era impadronita di un sistema pratico, fatto di tanti piccoli accorgimenti e di regole precise, che le permetterà di vivere per sempre la sua vita non dipendendo dagli altri per le necessità quotidiane, ma, al contrario, rendendosi utile in mille modi partecipando con intelligenza e vigile tenerezza alla vita familiare.
È una ragazza robusta dalle lunghe trecce nere quella che torna a casa nel 1938. Ha superato con i familiari altri grandi dolori: la morte dell’amato fratello maggiore e della madre. Ora sa prendere il suo posto di sorella maggiore e di zia affettuosissima.
Soprattutto Sabina ha trasformato il coraggio e la tenacia di bambina in voglia di conoscere, di partecipare e di battersi per tutti coloro che soffrono di menomazioni sensoriali. Da qui ha inizio la sua lunga battaglia a favore dei ciechi-sordi, perché non vengano abbandonati alla loro «notte silenziosa» ma aiutati a stare e a comunicare con gli altri, a conquistare la loro parte di conoscenze e di gioia, a potenziare le loro capacità sensoriali ed intellettive.
E così la storia continua. C’era una volta una ragazza bruna e poi un’esile signorina dai capelli grigi, che leggeva e studiava, che imparava le lingue straniere per corrispondere con associazioni e scuole di altri paesi, che partecipava a seminari e convegni accompagnata da abili interpreti, che visitava i suoi amici sordo-ciechi in ogni parte d’Italia per confortarli ed aiutarli con la sua esperienza a superare le difficoltà dell’integrazione. Inesauribile nella ricerca e nelle iniziative, ha fondato la «Lega del Filo d’oro» (1), ha ideato, organizzato e promosso i soggiorni estivi per i pluri-minorati, ha voluto e diretto la prima rivista italiana bimestrale in braille. E tutto questo continuando a provvedere a se stessa, a dividere i lavori di casa con le sorelle, ad occuparsi con grande affetto dei nipotini che le crescevano accanto.
C’era una volta, e c’è ancora, una coraggiosa tenace piccola donna che ci insegna che le cose straordinarie accadono anche ai nostri giorni, che i miracoli sono ancora possibili.
– M.T. Mazzarotto, 19976
Libera riduzione dal libro “La luce dentro” di Loda Santilli Ed. Caritas dei Morsi – Avezzano – 1988
(1) Associazione nazionale per la tutela e l’assistenza dei non vedenti privi di udito. Per maggiori informazioni vedi Ombre e Luci, n. 1 anno 1986.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.58, 1997
Sommario
Editoriale
Come fare una buona vacanza di M. Bertolini
Articoli
Una storia vera di M. T. Mazzarotto
Sordo cecità: conoscere per prevenire. Comunicare con una persona sordocieca
Un hamburger fatto bene di N.Schuìthes
Dedicato ai bambini - Flavio di Pennablu
Come progettare una comunità di M. Bartesaghi