Il titolo originale del romanzo Come l’acqua che spezza la polvere di Deborah Levy, finalista al prestigioso Booker Prize nel 2016, è Hot Milk: questo è anche il titolo del film che ne ha tratto la regista e sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz, in concorso alla 75ª Berlinale. Le due protagoniste sono britanniche, ma le troviamo in trasferta ad Almería, in Spagna: Sofia (Emma Mackey) accompagna in una clinica la madre Rose (Fiona Shaw) che spera in una cura per tornare a camminare. Il problema motorio della donna si manifesta fisicamente, ma forse è psicosomatico; a subirne le conseguenze è anche la figlia, la cui insofferenza nei confronti della madre cresce di pari passo con la fatica di accudirla adeguatamente.
Prendersi cura dei propri cari malati può essere faticoso, ma il peso che Sofia sopporta invade anche i suoi incubi: talvolta immagina di essere bloccata nella sedia a rotelle come Rose, e forse persino il dolore causato dalle meduse che la pungono in acqua è un modo di far provare al proprio corpo sensazioni molto forti. Rispetto al romanzo, Rose è ritratta in modo più negativo: irritante, invadente, soffocante, come servisse a giustificare la sofferenza psicologica di Sofia, la figlia senza indipendenza. Queste caratterizzazioni più nette fanno perdere, in parte, quella sensazione di ambivalenza presente nei rapporti tra chi è malato e chi se ne prende cura: amore e odio che possono coesistere. Una semplificazione narrativa che rende troppo scontato il rapporto madre/figlia, come se le vere personalità delle due donne non abbiano il tempo di emergere prima che il film finisca.

“Hot Milk” di Rebecca Lenkiewicz
È una situazione opposta, quella di Linda (Rose Byrne), che in un altro film in concorso, If I Had Legs I’d Kick You di Mary Bronstein, si prende cura di una figlia gravemente malata, mentre il marito è lontano, il suo appartamento diventa inagibile e il suo lavoro di psicanalista le crea ulteriori tensioni. A volte il disagio mentale di chi deve affrontare situazioni stressanti è poco visibile: la regista ha scelto di inquadrare molto spesso la protagonista con primissimi piani (mentre la bambina resta sempre fuori campo; ne sentiamo solo la voce) come a fare in modo che nulla, della sua sofferenza, ci possa essere nascosto.
Linda non è una cattiva madre, non è una cattiva psicanalista, non è una cattiva moglie e neppure una cattiva donna: se si comporta in modi nevrotici, talvolta quasi indifendibili, è perché non sa più come gestire da sola l’accumulo di problemi. È palesemente imperfetta, e la regia che non le dà mai tregua ci invita a non ergerci mai a giudici dei suoi comportamenti. Non c’è alcun coraggio nel fingere che tutto vada bene e sia sotto controllo: ammettere di essere una madre e una donna che soffre è il percorso che il personaggio deve affrontare per non rovinare la vita a sé e soprattutto a chi lei ama.

“If I Had Legs I’d Kick You” di Mary Bronstein
Un film della sezione collaterale Panorama è riuscito a dare un quadro così sfaccettato dell’argomento dell’assistenza domiciliare dei malati, da saper risultare anche divertente. Olmo, diretto dal messicano Fernando Eimbcke, è ambientato in New Mexico sul finire degli anni Settanta: Olmo (Aivan Uttapa) è anche il nome del quattordicenne protagonista di famiglia ispanica, il cui padre ha gli arti paralizzati a causa di una sclerosi multipla. L’assistenza di malati così gravi, cinquant’anni fa, non era paragonabile a quella odierna: nei titoli di coda compaiono i nomi di alcuni medici consultati per rendere credibile la situazione (ma tale cura è stata dedicata anche agli abbigliamenti e agli oggetti di scena). L’uomo deve passare le giornate in casa e soffre della sua completa dipendenza dalla moglie, dalla figlia maggiore e talvolta dal troppo giovane Olmo, tanto che i litigi in famiglia sono frequenti.
Eppure Eimbcke ha scelto di raccontare una famiglia realistica (allargata anche al migliore amico di Olmo) in cui affetto profondo e litigi coesistono normalmente come parte di una routine quotidiana, proprio come in quasi tutte le famiglie. La cura del malato origina anche scene divertenti (in cui l’attore Gustavo Sánchez Parra, interpretando un uomo sempre immobilizzato, recita solo col viso, affidando completamente il suo corpo ai colleghi) che si inseriscono in una più generale vicenda di maturazione e nuove esperienze da parte di un adolescente che non solo fa i conti con l’età, ma anche con le sue origini (i figli parlano inglese, i genitori spagnolo). La debolezza fisica di un genitore che mantiene una personalità forte è una componente importante nella maturazione di Olmo: al posto dell’autorità paterna c’è la responsabilizzazione filiale; la ribellione giovanile si conclude con un atto di affetto che le difficoltà quotidiane rendono tanto banale quanto speciale.

“How to Be Normal and the Oddness of the Other World” di Florian Pochlatko
Nella nuova sezione Perspectives, dedicata alle opere prime, un film austriaco ha invece mostrato una malattia dal punto di vista di chi ne soffre. In How to Be Normal and the Oddness of the Other World, diretto da Florian Pochlatko, la giovane protagonista Pia (Luisa-Céline Gaffro) racconta il suo ritorno in famiglia dopo essere stata dimessa da un ospedale psichiatrico. Il suo racconto non può essere lineare: è come se nelle immagini convivessero il mondo reale e quello immaginario di una ragazza che passa frequentemente dall’eccesso entusiasta di fantasiosità ai tracolli delle sue nevrosi.
Oltre alla bravura della protagonista che pian piano perde il controllo senza rendersene conto, ma al contempo rendendolo evidente a noi spettatori, si fanno notare le interpretazioni dei due genitori che devono recitare un doppio ruolo: le persone reali, e le versioni immaginifiche create dalla mente di Pia quasi come fossero interpreti di un film girato nella sua testa. Senza nascondere la sofferenza familiare causata dalle malattie della mente e dalla difficoltà del reinserimento sociale, viene comunicata anche una certa ricchezza delle menti iperattive: che infatti, quando non sono ingabbiate o trattate in maniera errata, spesso creano grande arte.
Questo articolo è disponibile anche in lingua inglese.
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