«I responsabili della mia comunità mi dissero che ovunque sarei andata, avrei fatto Fede e Luce». Con un bel sorriso, suor Camelia El Khoury, 52 anni, libanese in Terra Santa da ventidue, ricorda, nella nostra conversazione a Roma qualche settimana fa, la sua prima comunità di Beirut, a San Michele, vicino al porto che ancora porta i segni della terribile esplosione dell’agosto 2020. Se ne andò da lì quando la superiora le chiese di trasferirsi in Galilea «perché c’era bisogno di me. Cominciai con il catechismo ai bambini ma continuavo ad avere la chiamata a Fede e Luce. Insistei con il parroco per due anni. Era un po’ timoroso, non diceva niente ma glielo ripetevo spesso. Poi nel 2003 andai più decisa: “Sono due anni che sono qui e devo fare qualcosa”. “Fai come vuoi” mi rispose alla fine».

Così suor Camelia, dopo averlo rassicurato che non lo avrebbe coinvolto se non per sapere chi vivesse con un familiare con disabilità, quando ebbe i loro nomi, andò a visitarli casa per casa «per esser loro amica». Il suo arrivo stupiva e non poche volte incontrava diffidenza. Ma poi diventava di famiglia. «Busso, racconto di me, del perché sono lì, di cosa sia Fede e Luce. In genere queste famiglie sono abituate che quando qualcuno entra nelle loro case non si interessa minimamente del familiare con difficoltà, neanche lo saluta». Lei invece andava proprio per conoscere la persona in difficoltà, non i genitori.

In quel periodo, era il 2003, suor Camelia si trovava a Eilabum, tra Nazareth e Tiberiade, un villaggio di circa 5000 persone dei quali cinquecento cristiani. «Spiegavo cosa fosse Fede e Luce e la sua spiritualità. Volevo però che anche i giovani avessero l’opportunità di conoscere questa realtà. Sapevo che sarebbe venuto Jean Vanier per alcune conferenze. Non sapevamo nulla all’epoca delle sue problematiche: ora a riguardo mi interessa solo sapere che in quegli anni ha fatto qualcosa di profetico. Dissi a padre Soel che avremmo dovuto incontrarlo. Lo stesso dissi a una mamma e un papà, perché ascoltassero cosa fosse il movimento non solo dalle mie parole».

Cominciava così il cammino della comunità che intanto cercava anche di conoscere altre realtà vicine: una prima possibilità fu quella di un campo estivo organizzato in Giordania. Un incontro internazionale in Egitto rimase invece un sogno perché la popolazione araba cristiana residente in Israele non poteva recarvisi. Per questo motivo, qualche anno più tardi, le comunità della Galilea sono state accolte nella Provincia di Un Fiume di Pace. «Prima venne a conoscerci Lucia Casella, all’epoca vice coordinatrice internazionale; nel 2010 tornò con don Marco Bove, assistente spirituale internazionale, e Angela Grassi, nuova vicecoordinatrice, per incontrare la comunità e guidarla nella fase di elezione del responsabile»: si completava così il cammino di riconoscimento ufficiale.

«Nel 2011 mi sono dovuta trasferire, ho conosciuto tante ragazze e una in particolare che aveva una sorella con disabilità». Suor Camelia riprende da dove sa: cerca e visita con loro le famiglie con persone fragili di Shefar-am e di I’billin, organizzano un incontro ogni mese. «Da allora il gruppo è in collegamento con la provincia di Un Fiume di Pace. Loro sono venuti per incoraggiarci, noi abbiamo l’audacia dei primi discepoli e ora ci sono due comunità». Quasi… molte difficoltà sono poi arrivate con il covid: la ripresa comunque è avviata. «Nella società israeliana ci sono tante possibilità per le persone con disabilità, le leggi sono buone; esistono associazioni, facilitazioni per la mobilità, pensioni, assistenza sanitaria. Quello che manca però è la relazione umana, l’amicizia, la comunità, la condivisione», in poche parole Fede e Luce.

Quel senso di calore familiare si allarga anche alle consorelle che suor Camelia ha spesso coinvolto negli incontri con l’appoggio della superiora. «Abbiamo bisogno di semplicità e di umiltà per essere accoglienti. Nel nostro mondo facciamo tanti calcoli, vogliamo mettere mano su tutto. La vita è un dono, va ricevuto che ci piaccia o no. Ognuno di noi è fragile, ha i propri limiti. Avrei voluto pensare ancora alla comunità di Nazareth ma poi è scoppiata la guerra e non c’è stato modo. Da 75 anni viviamo così, ogni due anni abbiamo una guerra. Ora è proprio difficile. Non riescono a trovare una soluzione che rispetti la giustizia per tutti… non c’è».

Noi cristiani non possiamo proprio fare la guerra.
I cristiani si sentono in pochi eppure possono dare testimonianza di pace e di riconciliazione, ad esempio attraverso scuole e ospedali

Suor Camelia ha anticipato di mesi quello che poi sarebbe successo nelle settimane scorse nella sua terra natale: «Sono del Libano del sud, vicino Israele. Nelle guerre tra i due Paesi io ero proprio nel mezzo quando litigavano. Non sono per nessuna delle due parti, per la Palestina o per Israele. Non posso dire niente. Tra loro fanno sempre la guerra sempre e sempre il Libano viene coinvolto. Ma noi cristiani non possiamo proprio fare la guerra. I cristiani si sentono in pochi eppure, secondo me, possono dare la loro testimonianza di pace e di riconciliazione, di educazione attraverso le scuole e gli ospedali. Sono tante le istituzioni cristiane che accolgono molti, anche musulmani».

La comunità di Fede e Luce invece non può essere frequentata così apertamente dalle persone di fede islamica: agli incontri si trovano circa trenta persone, la maggior parte araba cristiana, che diventano cinquanta in occasione delle feste. I giovani coinvolti non sono ancora abbastanza forti ed è per questo che suor Camelia avrebbe voluto che partecipassero alla formazione provinciale. Purtroppo, i costi del volo e la situazione attuale non hanno aiutato la realizzazione di questo progetto per tutti. Un rinforzo però che sarebbe indispensabile visto che gli spostamenti di suor Camelia hanno grandi conseguenze per la comunità. «Ci sono due responsabili e sono rimasta come assistente spirituale. Se occorre sostegno o se sento che il gruppo è in difficoltà, intervengo. Quasi come fossi una vitamina».

Una donna, d’altronde, poco capace di star ferma a guardare. «A volte le persone mi domandano dove svolgo il mio servizio di suora, se nella scuola o negli ospedali: io rispondo nella strada a vivere con la gente. Nei villaggi vicino Nazareth non ci sono scuole cristiane, così io insegno il catechismo ai bambini per la comunione, incontro le donne, organizziamo pellegrinaggi, facciamo Fede e Luce. Ogni settimana ne visito tre. La mattina sono con le donne a pregare e il pomeriggio per il catechismo con i ragazzini di 10-12 anni. La parrocchia è piccola, ha 150-170 persone, i bambini vivono all’interno di una maggioranza musulmana. Più che fare qualcosa, sto con la gente, incoraggio la loro appartenenza alla chiesa. Per questo, mi dispiace che non ci siano molte religiose».

Suor Camelia appartiene all’ordine delle Religiose di Nazareth, diffuso in Francia, Libano, Italia e Palestina cui si occupa di educazione e istruzione. «Purtroppo siamo poche, la nostra è una piccola congregazione. Ho capito però che dando il mio piccolo sì a Gesù, lui si dà a noi tutto intero. Servono persone innamorate di Gesù, senza di lui non possiamo vivere. Testimoniare la gioia, la vita, l’amore, vivere vicino alle persone, al loro dolore, alla fragilità ci aiuta. Tante religiose rimangono distanti, senza condividere la vita delle persone».

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.168

Copertina di Ombre e Luci n. 168 (2024)

Come vitamina tra la gente ultima modifica: 2025-02-07T11:40:29+00:00 da Cristina Tersigni

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