Vediamo sempre più spesso documentari in cui gli ospiti delle comunità psichiatriche sono i protagonisti: come se oggi si ritenesse più utile concentrarsi sulle persone anziché sul funzionamento delle strutture che li ospitano (cosa più sensata, a opinione di chi scrive, quando bisognava mettere in evidenza le implicazioni sociali dei manicomi, e poi della loro chiusura).
Che ore sono di Marta Basso e Tito Puglielli (Premio Hera “Nuovi Talenti” per la migliore opera prima italiana al Biografilm Festival di Bologna) è girato in una comunità psichiatrica di Palermo ma il cuore del film sono le vite di tre ospiti: le vicende di Giuseppe, Ursula e Bianca sono lo spunto per mettere in luce quanto siano lunghi, tortuosi, quasi infiniti, i percorsi di recupero per i pazienti.
Si intuisce che il vecchio recinto fisico si sia lentamente trasformato in un recinto sociale: se è tanto difficile aiutare i pazienti a reinserirsi nella società – finalità auspicata delle comunità – il rischio è che l’essere un paziente diventi una condizione irrimediabile, togliendo ogni spinta al desiderio legittimo di evoluzione personale. Resta un senso di triste incompiutezza, al termine della visione, ma restano impressi anche l’ipnotica musicalità delle parole di Giuseppe, la speranza di Bianca di non avere buttato via tempo prezioso, il desiderio di amore di Ursula. Nelle immagini del film, lì soltanto, li vediamo liberi dai confini reali e immaginari della loro condizione.
C’è un fondo di speranza, al contrario, al termine del percorso terapeutico Sandwork Espressivo ideato dalla psicologa junghiana Eva Pattis Zoja, cui Andrea Deaglio ha dedicato il film Un milione di granelli di sabbia (concorso Biografilm Italia).
I bambini cui viene permesso di esprimersi attraverso una scatola di sabbia e delle miniature colorate hanno subito traumi enormi: sono sopravvissuti alla guerra nel Donbass, al genocidio yazida, al terremoto del Sichuan, ma la loro psiche è ferita, talvolta hanno perso la comunicazione verbale. La terapia non verbale concede loro una forma di espressione visiva e simbolica che, sessione dopo sessione, ha effetti curativi: le foto in sequenza delle loro composizioni mostrano prima l’elaborazione di eventi traumatici vissuti in prima persona, poi la ricerca di soluzioni e infine un rinnovato slancio verso il futuro.
C’è una strana casualità, nella vita di Pattis Zoja: come scopriamo da alcune vecchie lettere, il primo amore di sua madre era morto nel Donbass durante la Seconda guerra mondiale; e sono tanti i bambini del Donbass che lei ha aiutato, anche col supporto di psicologi del posto, sin dal 2014 con l’inizio della guerra e poi dopo l’invasione russa del 2022 quando molti di essi sono dovuti scappare, anche in Italia. Si crea un filo rosso tra guerre lontane nel tempo e vicine nello spazio, con un interessante parallelismo su come si possano superare i traumi che le guerre hanno causato in ogni epoca.
Meno raccontata, ma non meno drammatica, è la condizione dei giovani del Nagorno-Karabakh, regione abitata da armeni ma reclamata dall’Azerbaigian. In Jardin Noir (film del Concorso Internazionale Biografilm), Alexis Pazoumian ha seguito alcuni ragazzi del posto, fino all’esodo definitivo della popolazione armena dai territori che consideravano la loro casa. I più piccoli soffrono per i continui traslochi e l’intermittenza dei rapporti di amicizia; chi è in età da servizio militare ne paga le conseguenze anche fisiche, come Erik che perde una gamba per colpa di una granata. In ogni caso, il conflitto lascia ferite difficili da rimarginare: l’ostacolo più grande da affrontare è evitare che sia solo la guerra a definire l’intera esistenza di chi l’ha vissuta, e non c’è punto di vista più adatto di quello dei giovani per ricordarlo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.167