Se due luminari come Ernesto Galli Della Loggia e Roberto Vannacci mettono in discussione il «mito dell’inclusione» scolastica, forse è venuto il momento di cambiare prospettiva. Visto che quello italiano «è un caso unico al mondo» e «il risultato lo conosciamo», ma la scuola dell’inclusione mi ha insegnato il pensiero critico, cercherò di seguire il loro ragionamento.
Dunque, basta alunni e alunne con disabilità nelle classi dei normodotati! Perché i normodotati, pur non avendo alcun merito specifico, sono nati sani, con tutti i pezzi al loro posto, nella parte «giusta» e ricca del mondo e parlano la lingua che parla la maggior parte della comunità. Quindi, sono destinati alla formazione migliore, che li prepari a ricoprire gli incarichi più prestigiosi della società, lasciando agli sfigati il resto dei lavori.
Gli alunni con disabilità fanno restare indietro il resto della classe, fanno domande, hanno esigenze particolari per le gite scolastiche che vanno adattate, fanno spendere palate di soldi pubblici per l’abbattimento delle barriere architettoniche e sensoriali. Quante altre priorità si potrebbero coprire stornando quei fondi!
Invece, questa scuola dell’inclusione ci impone di stare tutti insieme e contaminarci, sporcandoci le mani. È faticoso preparare una lezione per una classe in cui bisogna considerare le esigenze degli alunni con neurodivergenza, con disabilità o stranieri, perché bisogna cambiare prospettiva, trovare risorse e strumenti nuovi, non convenzionali. E la fatica non è per tutti, ma la fatica nutre i risultati migliori.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.166