Tabakalera è un centro di arte contemporanea di San Sebastián che si trova all’interno di una ex manifattura tabacchi ristrutturata. È la sede dove si tengono le conversazioni del Festival del Cinema di San Sebastián (SSIFF), in cui si affrontano varie questioni che riguardano l’industria del cinema. La conversazione dal titolo “Diversità e inclusione dentro e fuori lo schermo” è stata l’occasione per riflettere sia sul tema della corretta rappresentatività delle disabilità sia nei film, sia più in generale del contributo delle persone con disabilità alla realizzazione dei film.
Il punto di vista sul tema è stato fortemente britannico, anche perché a condurre l’incontro (disponibile integralmente in inglese) è stata Clare Baines, che lavora per il BFI (British Film Institute) da quando, qualche anno fa, fu creato il ruolo di Disability Equality Lead (responsabile per l’uguaglianza delle persone con disabilità). Come si usa fare in questo tipo di incontri, per prima cosa ha fatto una breve descrizione di sé, per chi fosse cieco o ipovedente.
Anche la prima relatrice, l’attivista Shani Dhanda, è inglese di seconda generazione. Il suo intervento è stato una sintesi efficace (sarebbe perfetta per le scuole) su cosa sia la disabilità. Ha espresso alcuni concetti fondamentali: la disabilità non è una condizione ma un’esperienza che si verifica quando vengono create barriere o ci si trova di fronte a pregiudizi; è opportuno passare da un modello medico (si cerca di fornire cure a chi ha una disabilità senza cambiare l’ambiente circostante) a un modello sociale (bisogna cambiare innanzitutto l’ambiente che crea barriere e disuguaglianze); la disabilità può riguardare chiunque, anche in forma temporanea, perciò ogni cambiamento riguarda tutti; l’equità di trattamento andrebbe sostituita con l’eliminazione di tutto ciò che crea iniquità; molta della tecnologia che usiamo oggi è stata inventata per affrontare qualche disabilità, perciò l’accessibilità è un vantaggio per tutti.
Se l’ideale cui aspirare è un mondo che non crei più disuguaglianze, perché non possiamo anche immaginare un cinema che ne sia uno specchio, anziché limitare la rappresentazione delle disabilità com’è accaduto fino ad oggi? Un ottimo modo di farlo è coinvolgere le persone con disabilità nell’industria del cinema; durante il suo intervento il secondo relatore, il regista e produttore Justin Edgar, ha mostrato i dietro le quinte di alcuni dei film da lui prodotti.
Oltre ad aumentare la credibilità delle storie, se esse vengono recitate da qualcuno che ha esperienza diretta di ciò che viene mostrato, è opportuno coinvolgere chi ha una disabilità anche nel lavoro dietro la macchina da presa, anche quando ciò aumenta i costi di produzione: nel Regno Unito ci sono finanziamenti appositi, perché si è capito che una più autentica rappresentatività nei prodotti audiovisivi è impossibile senza un maggiore coinvolgimento diretto degli interessati che portino il loro punto di vista. Giova sempre ricordare che le persone con disabilità sono una fetta di mercato molto ampia, sebbene trascurata.
Una regola del BFI ricordata da Baines è che in Gran Bretagna l’assegnazione di fondi per la produzione di film è vincolata a una corretta rappresentazione delle minoranze. Edgar ha riconosciuto che oggi non sarebbe più accettabile, come accadde nel 2010 in un suo film, che l’attore non disabile Andy Serkis interpreti il ruolo del cantante Ian Dury, che per quasi tutta la vita ebbe difficoltà motorie alla parte sinistra del corpo. Non accade sempre lo stesso al di fuori del Regno Unito; su questi stessi temi, è interessante dire qualcosa sui film provocatori del giovane regista argentino Federico Luis presentati a San Sebastián.
Luis, quando era un assistente in una scuola di recitazione per persone con disabilità, conobbe l’aspirante attore Pehuén Pedre e ne divenne amico (anche durante il festival, li abbiamo visti spesso assieme). Nel cortometraggio Cómo ser Pehuén Pedre, scritto da entrambi, Pedre ha provato a insegnare a due attori come imitarlo, in modo da poter ottenere un certificato di disabilità (che per lui non è un fardello, ma un privilegio). Si nota un efficace ribaltamento rispetto a ciò che il cinema ci ha sempre mostrato: non attori che imitano la disabilità altrui attraverso l’osservazione, ma una persona che spiega la sua disabilità e come riprodurla, come muovere gli occhi, quali tic mostrare, cosa rispondere alle domande standard.
Partendo da questo spunto, Luis ha diretto il suo primo lungometraggio Simón de la montaña (visto nella sezione Horizontes Latinos) il cui protagonista è uno dei due attori del corto, Lorenzo Ferro. Qui interpreta Simón, che frequenta un gruppo di ragazzi con disabilità da poco tempo, e infatti di lui si sa poco. Non ha un certificato di disabilità, motivo per cui il suo amico Pehuén gli da lezioni su come ottenerlo. Perché Simón si comporti così, non è chiaro: in nessun momento del film lo vediamo smettere di imitare la disabilità, tanto che se non fosse per le scene con la madre e il compagno di lei che lo trattano con fastidio crescente, si potrebbe credere che Lorenzo Ferro stia davvero recitando il ruolo di una persona disabile e non di qualcuno che finge di esserlo. L’immersione totale nel ruolo, però, lo fa accettare dai ragazzi che inizia a frequentare e sanno la verità; grazie a lui, osserviamo dall’interno le loro vite di adolescenti e soprattutto capiamo quanto siano assolutamente comuni, e quanto lo siano le loro famiglie. Simón non crea barriere, ma le abbatte, con il suo comportamento: è una provocazione di alto livello concettuale sulla corretta rappresentazione cinematografica delle disabilità.
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