L​​a Seconda guerra mondiale imperversa. È il 1944 e la parigina Marie, lontana da suo padre, si nasconde nella casa sul mare degli zii a Saint-Malo, in Bretagna. Da qui viola la legge di Hitler, trasmettendo via radio messaggi in codice agli Alleati: la giovane legge col sistema Braille Ventimila leghe sotto i mari, il capolavoro di Jules Verne, e così facendo gli americani capiscono quali sono i bersagli da attaccare per liberare le città sotto scacco e vincere finalmente la guerra.

Tutta la luce che non vediamo, miniserie in quattro episodi disponibile su Netflix, è una grande storia. Grazie a Marie, interpretata dall’esordiente Aria Mia Loberti, suggerisce che proprio dietro a ciò che diamo per scontato si nascondono le grandi verità di cui abbiamo bisogno. Marie, del resto, non solo dirama i messaggi in codice, ma è un esempio di quanto sia necessario credere in se stessi. Nata con una malattia degenerativa agli occhi, è completamente cieca eppure «non ha mai vissuto nell’oscurità».

«Ha le dita al posto degli occhi», ha sviluppato tatto, olfatto e udito in modo da sapersi muovere nei meandri più impensabili della città e soprattutto in modo da riuscire a tirarsi fuori da qualunque situazione: Marie, grazie anche alla sua famiglia che da subito l’ha spronata e supportata, è riuscita a comprendere che quello che è importante è, appunto, la luce che non si vede.

La miniserie diretta da Shawn Levy (lo stesso regista di Stranger Things) e sceneggiata da Steven Knight (Peaky Blinders) è, dunque, un invito ad andare al di là delle semplici apparenze, abbattendo pregiudizi e tabù. Tratta dall’omonimo romanzo di Anthony Doerr (vincitore nel 2015 del Premio Pulitzer per la letteratura), nel suo cast figurano anche Mark Ruffalo, Hugh Laurie, Lars Eidinger, Marion Bailey, Andrea Deck, Rhashan Stone e Nell Sutton (quest’ultima è l’attrice ipovedente che interpreta Marie da bambina). Oltre a porre attenzione su un tema – quello della disabilità visiva –, spesso dimenticato dal grande schermo (e non solo), Tutta la luce che non vediamo intreccia inoltre la Storia col mistero.

Il racconto riguarda, di fatti, anche la storia dell’ufficiale nazista Reinhold von Rumpel che va alla ricerca della gemma, tanto preziosa quanto maledetta, custodita dal padre di Marie e, ancora, le vicende del giovane orfano tedesco Werner Pfenning (Louis Hofmann), inviato contro la sua volontà dall’esercito del Terzo Reich a intercettare i messaggi radio dei partigiani della Resistenza francese. È così che i personaggi, in un continuo rimando tra passato e presente, si imbattono gli uni nelle vite degli altri e viceversa: alcuni di questi incontri saranno fortunati e necessari; altri invece porteranno a galla soltanto orribili notizie.

Seppur non perfettamente aderente al romanzo (che in Italia è edito da Bur Rizzoli), l’opera è una narrazione lirica, malinconica e assai potente sulle conseguenze drammatiche e folli di ogni guerra (compresa la razzia di opere d’arte e patrimoni culturali di immenso valore), ma anche sul rapporto che può intercorrere tra un padre solo e la sua unica figlia, sull’amore e le relazioni filiali, sul distacco dalla propria terra e dalle proprie origini, sulla cecità di tutti coloro i quali credono di poter vedere e sulla luce (vera) che mantiene intatta l’innocenza di molti altri. La serie è assolutamente consigliata. La visione, d’altronde, fa uscire dall’oscurità, dal buio.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.165

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La vittoria di Marie ultima modifica: 2024-08-16T09:48:50+00:00 da Enrica Riera

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