Marco Tullio Giordana si è commosso, quando ha ricevuto un Pardo Speciale al 77° Locarno Film Festival: lo ha definito un figlioletto del Pardo d’Oro vinto nel 1980 col suo primo film. È tornato a Locarno per presentare in anteprima mondiale La vita accanto e non ha avuto paura di ammettere, circondato dal cast e davanti al pubblico locarnese che ha completamente riempito la sala del PalaCinema, quanto fosse soddisfatto della riuscita di questo suo ultimo lavoro.
Tratto dallo strepitoso romanzo omonimo del 2010 di Mariapia Veladiano, ha richiesto un lavoro indispensabile di adattamento del testo. La protagonista del libro è una bambina “brutta”: come rendere in immagini la bruttezza — nel testo accettata indiscutibilmente come tale e senza descrizioni dettagliate — senza risultare ridicoli o offensivi? La soluzione della sceneggiatura (scritta dal regista assieme a Gloria Malatesta e Marco Bellocchio) è visivamente molto efficace: la bambina nasce con una grande macchia rossa che parte da una guancia.
Senza cadere in una trasposizione visiva pedissequa, Giordana ha mantenuto il cuore del romanzo nel film: la caratteristica estetica della protagonista è un modo per renderla fisicamente “diversa” ma non è altro che una distrazione, un modo affinché il difetto visibile nasconda bruttezze familiari da tenere invisibili.
La vicenda si svolge a Vicenza nel 1980. Una coppia (Valentina Bellè e Paolo Pierobon) vive in un grande palazzo storico del centro che ospita anche la gemella di lui, una pianista di successo (Sonia Bergamasco). Aspettano una bambina ma l’attesa felice si trasforma in cupezza quando nasce: Rebecca è bella, sana, ma con una grande macchia rossa che si estende anche su parte del volto, un enorme angioma cutaneo che non può essere tolto.
La neomadre cambia vita: si veste di abiti scuri, non vuole più uscire e soprattutto non vuole che esca sua figlia, per proteggerla dagli sguardi cattivi altrui. Cade in una condizione a metà tra depressione e follia: è un personaggio a tratti molto sgradevole a causa della sua maternità aspra e quasi rigettata, ma che bisognerebbe cercare di comprendere, come invece non riesce a fare nessuno che le sta vicino.
È ambivalente anche il personaggio della zia che invece coccola Rebecca e la incoraggia a sviluppare il talento per la musica, ma sembra volersi impadronire del ruolo di madre che ritiene rifiutato dalla cognata. Il padre, la terza figura, è un brav’uomo completamente inadeguato a gestire un clima familiare che gli sfugge di mano: forse perché passivo e incapace di compassione, forse perché a sua volta colpevole di qualcosa?
La bambina cresce – la vediamo in diverse fasi della vita interpretata da tre diverse attrici, l’ultima è la pianista Beatrice Barison – ma nel grande palazzo di famiglia il dolore e la paura prevalgono su tutto: la sua crescita e la sua affermazione personale che è il vero cuore del film, devono superare silenzi, misteri, dolori, traumi, di una famiglia tipicamente ipocrita, più preoccupata dei giudizi altrui che della propria felicità.
Rispetto al romanzo, che ha una struttura più frammentata ed è meno cupo perché la voce narrante della protagonista adulta è in grado di elaborare serenamente il suo passato, il film è un dramma familiare abbastanza classico che però sfrutta al meglio la rinuncia al mostrare la presunta bruttezza (trasformata in un simbolo) per ritrarre con più efficacia come si può essere consumati dalla paura della diversità: è un’educazione allo sguardo che, abituato a concentrarsi sulle apparenze, troppo spesso trascura di essere guidato dal ragionamento.
La Newsletter
Ombre e Luci è anche una newsletter
Ci trovi storie, spunti e riflessioni per provare a cambiare il modo di vedere e vivere la disabilità.
Se prima vuoi farti un'idea qui trovi l'archivio di quelle passate.