Fu un buon vento quello del 1968, su cui soffiarono e confluirono correnti straordinarie come Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, le idee dello psichiatra Franco Basaglia, di quell’anno L’Istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico dove si teorizzava la chiusura dei manicomi. Nel 1970 era uscito Il paese sbagliato: Mario Lodi denunciava come nella maggior parte dei casi ci fosse «una straordinaria somiglianza fra le celle di una vecchia prigione e le aule delle scuole».

Nello stesso anno fu trasmesso dalla Rai il documentario di Luigi Comencini I bambini e noi. In un episodio, La bicicletta, il regista prendeva in esame, in maniera magistrale, le problematiche sociali e scolastiche che una borgata romana, Prima Porta, si era trovata ad affrontare. Accanto alle affollate classi curriculari, vi erano quelle differenziali per alunni e alunne con problemi cognitivi e comportamentali. L’autore puntava il dito proprio contro la ghettizzazione e la miopia di quelle «scelte educative» che, lungi dal recupero e dalla risoluzione dei problemi, sortivano effetti devastanti, acuendo in modo irreparabile le contraddizioni.

Che in quegli anni il dibattito fosse particolarmente vivo e aperto lo dimostravano anche i titoli di coda del documentario stesso, ma assoluta protagonista nell’impegno per una scuola flessibile, capace di accogliere tutti, volta a superare la visione discriminatoria ed emarginante della scuola gentiliana, era stata fin dai primi anni Sessanta, a Torino, Mirella Casale, dirigente scolastica e madre di Flavia, una bambina con grave disabilità.
«L’impulso a occuparmi di disabilità intellettiva e/o relazionale lo devo a una mia esperienza personale che mi causò un grandissimo dolore, il maggiore della mia vita. Seppi contenerlo facendo normalmente la mia vita scolastica, senza far sentire agli alunni la sofferenza che avevo dentro. Il 26 ottobre 1957, mia figlia Flavia – che non aveva ancora compiuto sei mesi – si ammalò d’influenza “asiatica” con febbri fortissime e sviluppò una gravissima encefalite virale, seguita da coma, che ne danneggiò moltissimo il cervello».

A superare la visione discriminatoria ed emarginante della scuola gentiliana, era stata fin dai primi anni Sessanta a Torino Mirella Casale, dirigente scolastica e madre di Flavia, una bambina con grave disabilità.

Fin dal 1971 Casale aveva inserito in via sperimentale alunne e alunni con disabilità intellettiva e psicofisiche, anche gravi, nelle classi comuni del tempo pieno della sua scuola media, la “Camillo Olivetti”. Da quella data le sperimentazioni furono numerose ma, anche dopo l’approvazione della legge 517, si parlava di «inserimento selvaggio» per esprimere la confusione, a volte lo smarrimento, per la mancanza totale di formazione non solo degli insegnanti curricolari, ma anche di quelli che avrebbero dovuto essere gli insegnanti di sostegno.

Ricordo che durante gli scrutini di un esame di terza media, a Collegno, un collega voleva scrivere H accanto alla dicitura «Promossa» di una bambina con disabilità. Come consiglio di classe rifiutammo la proposta, che però, ai più, non era sembrata così insensata.

Il problema non erano, tanto, le alunne e gli alunni con grave disabilità, inizialmente poco numerosi e poi completamente a carico del «sostegno» ma coloro le cui problematiche di disagio sociale, comportamentale, anche neurologico, non erano riconosciute, ragazzi e ragazze che finivano con l’essere sanzionati, puniti, bocciati. In molti casi le classi differenziali venivano tranquillamente ricostituite in modo mascherato, rinnovando la storia del mostro cacciato dalla porta che rientra comodamente dalla finestra.

In molte scuole, soprattutto medie inferiori, all’interno delle classi si organizzavano gruppi variamente assortiti. Ad alcuni veniva proposto un corso di latino o di scrittura creativa o comunque di spessore culturale, ad altri di disegno, infine tornei di calcio per quelli agitati e meno portati per lo studio. Fermo restando che probabilmente tutti avrebbero preferito giocare a calcio o disegnare, il messaggio era chiaro.

Ho ancora in mente una curiosa ora di sostituzione in una seconda media, a Lunghezza. Entrando in classe incrociai il gruppetto dei bravi che con tanto di vocabolari e fogli protocollo a righe, si recava nell’auletta vicino alla biblioteca. «Vanno matti per i Commentarii de bello gallico, oggi c’è la verifica!», mi spiegò la compiaciuta prof di lettere. La collega che sostituivo era quella di sostegno dell’alunno con disabilità, la quale però in quell’ora di pseudo compresenza, come poi ebbe a dirmi, si affannava a tenere tranquilli i ragazzi che facevano o copiavano i compiti delle altre materie, fra l’altro alcuni erano «proprio dei delinquenti» e il modo di «stare dietro» al ragazzino con problemi proprio non c’era, menomale che era buono buono, ogni tanto si agitava anche lui, ma telefonavano alla madre che veniva a prenderlo subito.

Poi toccò a me essere quella madre che correva subito a prendere a scuola il figlio. L’asilo non andò bene, era tutto così nuovo e c’era costantemente lo scrupolo di non disturbare anche quando i soprusi erano evidenti, ma tacevo per non incrinare i rapporti che temevo avrebbero finito per danneggiare Massimiliano.

Meglio alle elementari, dove la brava maestra Clive aveva fatto il corso di scrittura facilitata per scrivere con lui. Alle medie le insegnanti, sapendomi loro collega, contavano sulla mia comprensione: «In classe ci sono dei rom e poi il programma da portare avanti, tuo figlio ogni tanto è davvero inquieto, sarebbe meglio rimanesse a casa o comunque dovrebbe uscire prima, per il suo bene». Il fondo fu toccato alle superiori, dove a Massi, in uno dei primi anni, era capitata come insegnante di sostegno Gabriella.

Gabriella abitava fuori Roma, laureata in biologia, bancaria fino a qualche anno prima, aveva deciso di entrare nella scuola per lavorare meno ore e aveva scelto la cattedra di sostegno perché «più veloce». Era sempre assente giustificata in quanto iscritta a un corso di didattica del latino: avrebbe chiesto il trasferimento sul sostegno per avvicinarsi a casa, ma poi sarebbe passata alla classe di latino perché per il sostegno non si sentiva portata.

Poi toccò a me essere quella madre che correva subito a prendere a scuola il figlio. L’asilo non andò bene, meglio le elementari, il fondo fu alle superiori. Finché presi una decisione.

Sorte analoga, nella stessa scuola, era capitata a Lorenzo, coetaneo di Massi e figlio della mia amica Giuliana. In più, rispetto a Gabriella, l’insegnante di sostegno di Lorenzo non poteva lasciare da solo Filippo, il cane. Filippo rimaneva legato nel giardinetto della scuola e la padrona doveva scendere in continuazione altrimenti lui piangeva, cioè abbaiava a cantilena senza sosta. Nelle uscite per le visite didattiche, la scolaresca era seguita dalla prof di sostegno, Lorenzo e il cane. Surreale! (Come surreale fu un bel teatrino fra la nonna di Lorenzo e la prof di sostegno: anche il marito si chiamava Filippo, e il nipote un po’ si confondeva a sentire chiamare il nome del nonno di continuo; la prof quasi si offese: non poteva cambiare il nome del cane dopo 5 anni; «Si figuri un po’ se può cambiarlo mio marito dopo 70!», chiosò la nonna).

Fu per uscire da tutto questo che, dopo una memorabile quanto liberatoria telefonata in lacrime a Giulia da una panchina di Villa Chigi, decisi di seguire il suo consiglio: smettere di accontentarmi del nulla, di tamponare situazioni sgangherate, dovevo, finalmente, assecondare la mia attitudine a «prendere a morsi i problemi».

Usufruendo di una serie di normative favorevoli, per due anni mi sedetti nel banco accanto a Massi come sua prof di sostegno. Era un liceo di Scienze Umane a utenza per lo più femminile. Gli insegnanti non opposero resistenza, le alunne e i pochi alunni, passato il primo momento di stupore, trovarono la cosa originale e da subito piacque avere in classe quella strana coppia di ragazzo e sua madre prof di sostegno.

Gli insegnanti furono gentili, ma assolutamente disinteressati alle problematiche dell’inserimento dell’h, tanto che a nessuno venne mai in mente di chiedere il mio parere per l’organizzazione del campo scuola o della gita di fine anno. Le ragazze e i ragazzi, anche delle altre classi, impararono invece a conoscere Massi, a relazionarsi e, in fondo, a non averne paura. Massi era tranquillo, era contento quando venivano a casa a fare i compiti e per me fu un’esperienza di vera formazione.

Anni dopo, nella mia prima media, era arrivata Lucia, una bimbetta con disabilità anche motoria, molto sensibile soprattutto ai rumori, bastava un niente per farla sobbalzare, agitare e piangere, ma quando era tranquilla e sorrideva, Lucia era fantastica. Non furono necessarie particolari raccomandazioni, fu naturale per tutte e tutti, compresi i prof più «vocioni», parlare con calma, a voce bassa, alzarsi con delicatezza (guai a far rumore con le sedie), non scatenarsi durante l’intervallo e ripeterle, appena possibile, filastrocche e poesie che la mandavano in visibilio.

Ci lasciammo tutti educare da Lucia e, almeno quella volta, il solito «questi bambini hanno tanto da dare», non era retorica. Ancora oggi, nel lessico di noi colleghi di allora, «la classe di Lucia» è rimasta «il Gotha», anche a significare che difficilmente, poi, le cose andarono così bene.

Le criticità sono ancora tante e perché siano attuabili progetti inclusivi mirati al beneficio della persona con disabilità servirebbero strumenti e risorse che non si trovano, oltre a una reale volontà di andare in quella direzione. Ma non si possono negare passi in avanti, soprattutto nella mentalità.

Nessun diritto, purtroppo, si acquisisce una volta per tutte e non si può mai abbassare la guardia, come dimostrano attuali fatti di cronaca. Però quando una regola sentita come giusta, anche se inizialmente calata dall’alto, diviene coscienza, è difficile tornare indietro.

Ai miei tempi, quando andavo a scuola, era normale che i prof fumassero in classe. Poi nelle scuole, negli ospedali, al cinema, nei treni comparvero i cartelli «vietato fumare»… Ora quei cartelli non servono più. Se guardiamo indietro, ci accorgiamo, con gioia, che stiamo andando avanti e che siamo migliorati su molte cose, nonostante tutto.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.166

Copertina di Ombre e Luci n. 166 (2024)

Fu un buon vento ultima modifica: 2024-08-26T16:02:44+00:00 da Nicla Bettazzi

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