Finita la Berlinale 74, attendiamo di vederne i film anche nelle nostre sale. Avranno maggiori possibilità di trovare spazio quelli premiati, ma è già stato acquistato per la distribuzione italiana anche uno dei più apprezzati dalla critica che a sorpresa non ha ricevuto riconoscimenti dalla giuria, l’iraniano Keyke mahboobe man (My Favourite Cake), comunque vincitore dei premi della giuria ecumenica e della stampa internazionale. I due registi, Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, non li hanno potuti ricevere di persona perché l’Iran ha sequestrato loro i passaporti: dalle loro parti molti film devono essere girati in clandestinità perché mostrano la vita reale e non quella censurata e fasulla che il regime tenta di imporre. La protagonista di questo film ha settant’anni e nessun interesse nella politica: è vedova, sua figlia è all’estero, si sente sola, esce così di rado che non si ritrova più nella sua stessa città. Per caso incontra un tassista della sua età, altrettanto solo, e la simpatia che lui le ispira la spinge a cercare di conoscerlo meglio. In Iran, però, il solo fatto che un uomo e una donna settuagenari ma non sposati trascorrano assieme una serata in casa è malvisto: la dolcezza di questa piccola speranza di amore della terza età possiede anche l’amarezza del dover fare le cose di nascosto. Nel suo piccolo è davvero un film rivoluzionario perché possiede quella sincerità quotidiana che il regime vorrebbe non venisse mostrata. Non è neppure un’opera completamente nascosta dentro quattro mura, perché l’anziana non è affatto indifferente alle ingiustizie subite dalle donne più giovani: pur sembrando fuori dal tempo e dallo spazio, è un film totalmente immerso nel clima di paura e rivolta dell’Iran di oggi.
Fa parte del programma della Berlinale anche la sezione indipendente Forum, non competitiva, che dal 1971 si pone in alternativa alla selezione ufficiale per dare una vetrina a giovani registi e film sperimentali da tutto il mondo. È qui che negli ultimi giorni del festival si è potuto vedere il film, diretto da Abdenour Zahzah, col titolo più lungo di questa edizione: Chroniques fidèles survenues au siècle dernier à l’hôpital psychiatrique Blida-Joinville, au temps où le Docteur Frantz Fanon était chef de la cinquième division entre 1953 et 1956. Già così è un bel riassunto, ma prima di tutto è utile ricordare chi fu Frantz Fanon. Nato in Martinica nel 1925, combattente nella resistenza francese durante la guerra, laureatosi poi in psichiatria, a metà degli anni Cinquanta fu il primo primario nero a lavorare nell’ospedale psichiatrico Blida-Joinville di Algeri, ancora colonia francese. Fanon vi introdusse la socioterapia: l’obiettivo era trattare i pazienti in modo dignitoso e in particolare coinvolgerli attivamente in conversazioni collettive e attività sociali, rendendone partecipe anche il personale medico, quando ancora elettroshock e spersonalizzazione dei pazienti erano la regola nella maggior parte del mondo, Italia inclusa. Caratteristica peculiare di quell’istituto era la netta separazione dei pazienti francesi dai pazienti arabi; essendo a capo di una divisione di arabi, Fanon si impegnò a capirne la cultura e finì per collaborare col Fronte di Liberazione Nazionale, sviluppando in quel contesto, in modo compiuto, la sua ideologia anti colonialista. Quei suoi intensi anni in Algeria sono raccontati un film asciutto, semplice, in bianco e nero, ben documentato, utile per un pubblico non specialistico a capire la funzione degli ospedali psichiatrici anche come centri di detenzione e di soppressione del dissenso. Pur essendo, quello di Fanon, un percorso segnato da personali questioni storico/politiche, il suo contributo nel chiarire l’essenza del manicomio come luogo di privazione della dignità del paziente attraverso l’abuso di potere (e una conseguente assenza di volontà terapeutica) è stato recepito oltre i confini francesi, influenzando anche Franco Basaglia: perciò sarebbe auspicabile poter vedere presto questo film anche in Italia.
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