La Berlinale 74, proprio come un anno fa, è stata vinta da un documentario: la giuria presieduta per la prima volta da una donna di origine africana, l’attrice Lupita Nyong’o, ha assegnato l’Orso d’Oro alla regista franco-senegalese Mati Diop per Dahomey, Una coincidenza, perché il premio a un’opera che riflette in maniera intelligente sull’eredità del colonialismo è meritato. A metà tra favola e dibattito pubblico, il film ha per tema la restituzione al Benin (paese dell’Africa occidentale) di 26 opere d’arte trafugate durante l’epoca coloniale dalla Francia. Una delle statue narra in prima persona il suo viaggio di ritorno, con una voce che arriva direttamente dagli antri oscuri del passato per riaffermare la propria identità e accogliere la sua vecchia/nuova casa. Nella seconda parte viene dato spazio ai dibattiti che hanno coinvolto i giovani del Benin, riunitisi a seguito della restituzione per confrontarsi sul recupero della tradizione rispetto a quanto il colonialismo ha rubato e non necessariamente restituito; ad esempio nella lingua, perché i dibattiti sono in francese. Diop dà voce sia al passato delle statue sia al presente dei giovani in un dialogo impossibile eppure proficuo, e così dà forma al confronto tra la rappresentazione artistica di un popolo antico, e la rappresentazione politica di una gioventù contemporanea che si interroga sulla propria cultura.
Sul palco del Berlinale Palast sono saliti anche due attori anglofoni a ritirare gli Orsi d’Argento per la recitazione. Emily Watson ha vinto per il breve ma intenso ruolo di una suora, simbolo di una delle pagine più tristi del cattolicesimo irlandese, in Small Things Like These: proprio nella scena in cui si confronta con il protagonista, esprimendo una crudele indifferenza pur mantenendo comportamenti cordiali e sorridenti, lo spinge finalmente ad agire in aiuto del prossimo. Sebastian Stan, premiato per A Different Man, ha voluto ringraziare il regista Aaron Schimberg e il co-protagonista Adam Paerson per avere avuto fiducia in lui e nel suo modo di interpretare la disabilità prima vissuta dall’interno e poi osservata dall’esterno.
Una giuria distinta ha assegnato un premio a parte al miglior documentario: No Other Land, diretto da un collettivo di registi due palestinesi e due israeliani, era uno dei film più attesi di una manifestazione segnata da continui riferimenti al conflitto nella Striscia di Gaza. Questo film, però, è stato girato a Masafer Yatta, nel sud della Cisgiordania: unendo lo sguardo interno palestinese e lo sguardo esterno dell’attivismo israeliano, testimonia le azioni dell’esercito israeliano per sradicare dalle loro terre gli abitanti palestinesi con la scusa di voler creare delle servitù militari. Impossibile non notare l’ingiustizia di queste azioni, la crudeltà inutile dei militari israeliani, il dolore dei bambini che vedono la distruzione delle loro scuole e dei parchi giochi; ma all’interno del film stesso ci si domanda che contributo possa dare il cinema per cambiare le cose. Se l’obiettivo era sensibilizzare l’opinione pubblica e magari influenzare le politiche del governo israeliano, è improbabile che il risultato venga raggiunto; anzi, a Berlino le polemiche sono state intense. Il dibattito col pubblico alla fine della proiezione è stato movimentato: il regista palestinese ha affermato di non condividere la posizione della direzione del festival sul conflitto a Gaza, ci sono stati cori scomposti in favore della Palestina, uno spettatore che ha ricordato i crimini di Hamas e la necessità di una soluzione politica condivisa ha litigato con i ragazzi che scandivano quei cori. Durante la cerimonia di premiazione, parole sul cessate il fuoco sono state pronunciate anche da altri giurati e premiati; alcuni politici hanno poi contestato il punto di vista univoco e il rischio di antisemitismo in alcuni dei discorsi (tema molto sensibile in Germania), contestazioni forti perché il festival è finanziato da soldi pubblici. Purtroppo, quindi, da questa Berlinale non abbiamo ottenuto una riflessione articolata ed equilibrata su un tema delicato come la questione palestinese, ma solo ulteriori divisioni.
Tanta attenzione dell’opinione pubblica locale ricorda quanto la Germania sia abituata a ragionare sulle tragedie del suo passato e la regista Julia von Heinz, nel suo primo film in lingua inglese Treasure, ha affrontato indirettamente la peggiore di tutte. Nel 1991, una donna newyorchese e suo padre polacco di nascita (Lena Dunham e Stephen Fry) fanno un viaggio in Polonia affinché lei possa vedere per la prima volta da dove proviene la sua famiglia. Si inizia in commedia (lei non parla polacco e il padre iper protettivo si comporta in modo esuberante) ma più si va avanti col viaggio, più si entra in profondità nei ricordi dolorosi dell’uomo, sopravvissuto alla Shoah. Ciò che funziona meglio è l’alchimia tra i due protagonisti nel rappresentare un tortuoso rapporto padre/figlia che si allontanano per divergenze generazionali e culturali e poi si riavvicinano per un affetto consolidato dalla riscoperta delle origini.
È più difficile, all’inizio, capire il periodo storico del film di Andreas Dresen From Hilde, with Love; gli anni Quaranta in piena epoca nazista, sebbene senza la classica iconografia del periodo. Dopo l’arresto di Hilde, una giovane incinta, metà film prosegue nel raccontare la sua prigionia, alternata all’altra metà che torna indietro in senso inverso fino al ricordo più lontano. Fa parte di un gruppo di giovani della resistenza, ma non si entra nel dettaglio delle loro ideologie; i personaggi non vengono glorificati (Hilde è esistita davvero e la Germania dell’Est la considerava un’eroina) ma avvicinati ai giovani d’oggi, capaci di impegnarsi politicamente e allo stesso tempo desiderosi di vivere appieno la loro giovinezza, divertirsi, amare. Senza soccombere, almeno nella volontà di continuare a sognare, neppure alla ferocia nazista che non tollerava dissenso.
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