Al terzo piano del padiglione Puddu dell’ospedale San Camillo di Roma, in fondo a uno dei corridoi dei reparti, due stanze accolgono per una giornata Federica e Max con le loro madri. È passata da poco l’ora di pranzo e stanno aspettando, ognuno nella stanza assegnata al mattino, il tempo necessario al controllo post-operatorio in seguito a un intervento odontoiatrico relativamente semplice come la pulizia dentale. Nel loro caso, però, tanto semplice non è mai stato. Hanno circa 20 anni e gravi problemi comunicativi: un controllo di salute dentale non è scontato per quanti, come loro, rientrano tra i pazienti con disabilità intellettiva definiti “non collaboranti” o “difficili”. Al piano superiore una sala operatoria viene infatti dedicata una volta a settimana a situazioni simili, per gli interventi necessari che il San Camillo, come ospedale di livello Dea 2, è in grado di affrontare.
Quello che dal novembre 2019 aveva l’accezione di “progetto” all’interno dell’Azienda San Camillo, dallo scorso ottobre è il servizio Tobia: una realtà trasversale, attualmente composta da sei operatori formati all’incontro con la persona con gravi disabilità intellettive, che attua un servizio sanitario preventivo e universale attraverso un servizio specifico di ascolto, accoglienza e accompagnamento nei percorsi clinico-diagnostici.
«Non mi sono inventato niente» sottolinea Stefano Capparucci, coordinatore prima del progetto e ora del servizio. «Avevo sentito parlare del progetto Dama e sono andato a Milano per vedere come fosse organizzato. Non ho fatto altro che copiare quel modello e adattarlo alla realtà del San Camillo che, con i suoi quindici padiglioni, rappresenta quasi una cittadina ospedaliera, con tutto quello che questo comporta in termini di logistica. L’ho pensato come una vera necessità e come realizzazione di un diritto soggettivo alla cura che non può escludere nessuno».
Perché, nei fatti, l’esclusione dai consueti percorsi di cura per persone come Federica e Max esiste eccome. Lo sottolinea Fabrizio Pugliese, un altro dei camice color malva (utile, insieme ad altri accorgimenti, per far meglio accettare il contesto ospedaliero), quando ricorda quanti arrivano raccontando le risposte negative ricevute in altri presidi perché il paziente «non collabora»: «Quanti “Ci dispiace, ci abbiamo provato ma non è stato possibile eseguire gli esami previsti”. Qui siamo riusciti a far in modo che risposte così non avvengano più perché, ad esempio, abbiamo coinvolto gli anestesisti nell’espletamento degli esami radiologici».
Poter prevedere più di una valutazione diagnostica nella stessa seduta, sfruttando l’anestesia necessaria, si è rivelato spesso fondamentale in questi pazienti. Così è accaduto nella ricerca di un motivo al comportamento improvvisamente autolesivo di un ragazzo ecuadoregno ventunenne. «Aveva cominciato a battere la testa e, durante una sessione di risonanza magnetica in anestesia (che però dava esiti negativi) è stato esaminato anche all’otorinolaringoiatra. Solo un esame approfondito, impensabile da svegli, ha permesso di individuare la causa del dolore in un herpes del canale uditivo profondo».
Non si tratta solamente della possibilità di sedazione per interventi che normalmente non la richiederebbero: un approccio che non prevede alcun tipo di contenzione fisica per lo svolgimento delle indagini diagnostiche implica che Tobia abbia un’attenzione particolare nella cura dei tempi e della tempistica degli appuntamenti. In concreto significa che, ad esempio, gli appuntamenti vengono fissati nella tarda mattinata; che il professionista sa che avrà un tempo maggiore per la visita; che si verrà avvisati con anticipo laddove l’appuntamento debba essere rimandato; che, ove necessario, la famiglia potrà incontrare più di un professionista nella stessa giornata: piccole cose che diventano fondamentali per una famiglia in difficoltà. I genitori che accompagnano i loro figli spesso sono soli, non raramente anziani, e questo servizio può alleggerirli di molte preoccupazioni.
Lo ha espresso molto bene una madre chiamata a raccontare la sua esperienza alla giornata dedicata alle fragilità. Capparucci ricorda quella testimonianza, del tutto inattesa, sul servizio che aveva contribuito a fondare. «La signora, vedova e con un solo figlio con una grave disabilità intellettiva, per seguirlo si era dovuta licenziare. Ma per i problemi di salute del figlio trovava solo porte chiuse: era così disperata da pensare che l’unica soluzione fosse metterlo in una struttura che si prendesse carico degli aspetti che lei non era in grado di seguire. “Sembrava impossibile che esistesse una cosa come il progetto Tobia quando l’ho incontrato; mi sono sentita sgravare il cuore perché finalmente ero sostenuta”». Tobia le aveva reso possibile scegliere liberamente e consapevolmente quale strada percorrere.
Non è scontato che un genitore venga ascoltato quando si tratta di valutare la condizione di salute di un figlio: eppure è proprio il genitore in grado di interpretarne il malessere. «Solo dopo aver fatto particolari indagini diagnostiche in anestesia e aver constatato la presenza di molte radici dentali scoperte, causate dal continuo digrignare dei denti frequente in alcune condizioni, si è data ragione a un comportamento autolesivo di un ragazzo di 21 anni, che era stato invece solo imbottito di farmaci. La mancata diagnosi aveva portato a quella di psicosi».
«Se poi i genitori vengono meno, saranno le persone che vivranno loro accanto a dover diventare attenti osservatori – aggiunge Pugliese –. Ma questo allunga i tempi di consapevolezza per alcune problematiche di salute. I calendari di prevenzione devono valere per tutti. E si possono imparare a quantificare i benefici anche economici di una corretta prevenzione che eviti le urgenze. Contribuendo così a ridurre quel dato evidenziato da un recente rapporto dell’Oms: le persone con disabilità hanno un’aspettativa di vita inferiore di 20 anni rispetto alla media della popolazione».
Narciso Mostarda, direttore generale dell’Azienda ospedaliera San Camillo, sottolinea come si sia riusciti «a superare quell’impasse per il quale la percezione diffusa dell’approccio degli operatori alle disabilità complesse fosse qualcosa di emergenziale… “ci dobbiamo occupare anche di questo dopo tutto quello che facciamo?”. Con questo servizio siamo in grado in via ordinaria di affrontare problemi di cura ordinari, un diritto soggettivo finora spesso eluso. E di non restare impreparati di fronte a qualcosa che invece ora conosciamo bene grazie alle relazioni significative che abbiamo ingaggiato con le famiglie». Famiglie che finora rischiavano di “scegliere” di non curare il proprio caro perché difficile, per ritrovarsi poi nell’emergenza di un pronto soccorso. Due errori che, sapendo finalmente a chi rivolgersi, si devono e possono evitare.
«Stiamo sollecitando – chiosa Mostarda – un grande ospedale come il nostro ad avere la sensibilità pronta, a esser pronti non impreparati. Abbiamo raggiunto 850 famiglie che si fidano non per gli sconti ma per la cura che trovano, perché hanno stabilito una relazione. Stiamo investendo per dare ulteriore sviluppo a un grande spazio della cura e delle relazioni, uno spazio di accoglienza all’ingresso principale, così nessuno potrà sbagliarsi». Ci sono tante fragilità da raggiungere e cui venire incontro: saperli accogliere e accompagnare fa e farà la differenza.
Il progetto Dama e Tobia
Nel 2001 Filippo Ghelma, medico del San Paolo di Milano, aveva trovato il modo di accomodare la rigida routine ospedaliera alle necessità di un giovane con una grave disabilità. L’anno dopo nasceva il progetto Dama (Disabled Advanced Medical Assistance), diventato una rete nazionale presente in 20 città italiane. A Roma è stato invece Tobia (Team Operativo Bisogni Individuali Assistenziali) a dare avvio alla buona pratica. «Un uomo di quasi 50 anni con una grave disabilità intellettiva – racconta Stefano Capparucci – presentava spesso episodi di autolesionismo con conseguenti rotture retiniche. Rispondevamo in urgenza al reparto oculistico con interventi chirurgici mirati, agevolati e tempestivi. I tempi di attesa, altrimenti, sarebbero stati fatali. Perché non standardizzare percorsi di questo tipo a partire da bisogni clinico assistenziali perché fossero agevolati e non privilegiati?». Un call center (06/58706099 e 346/2337741) risponde alle chiamate di familiari, caregiver, operatori di centri o strutture, medici generici; un triage telefonico raccoglie i dati del paziente, le sue particolarità e specificità. Viene quindi attivato un piano di intervento individualizzato, che coinvolge unità operative e i vari professionisti interessati, accompagnando il paziente nelle varie fasi del percorso. A partire dall’esperienza del San Camillo, questo modello si diffonderà in altre quindici aziende sanitarie laziali grazie a una linea di indirizzo regionale già approvata.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.163