Al Far East Film Festival di Udine, due film sulla fragilità degni di nota. Vedere qui pellicole popolari in Estremo oriente è un buon modo per notare le differenze con il cinema occidentale anche in tema di disabilità e inclusione sociale.
Il primo rappresenta un record: dopo 25 edizioni vince un film della Malaysia, Abang Adik, scritto e diretto da Jin Ong. Abang e Adik sono fratelli malesi pur non avendo un legame di sangue, entrambi privi di documenti d’identità. Apolidi, hanno gli stessi problemi degli immigrati clandestini con i quali condividono l’ambiente sociale poverissimo. Abang ha una disabilità uditiva eppure, nel rapporto di interdipendenza reciproca, è Adik ad avere più bisogno di aiuto. Kang Ren Wu, che interpreta Abang, è un modello udente che ha imparato il linguaggio dei segni: la sordità è una soluzione narrativa. Si potrebbe pensare che sia un modo per sottolineare l’isolamento del giovane dall’ambiente sociale, invece costui è dotato di un ottimo apparecchio acustico fuori luogo nel contesto di miseria in cui vive. Non è un problema che un attore udente interpreti un non udente, ma la scelta dovrebbe essere giustificata dalla trama o dal talento dell’interprete, anziché sembrare un modo per aumentare il carico emotivo del film. Peccato perché Abang Adik ha comunque il merito di proporci un ritratto encomiabile degli invisibili della società malese, che si somigliano in tutto il mondo.
Arriva invece dal Giappone un film su un futuro inquietante: per arginare una crisi economica dominata da conflitti intergenerazionali violenti, lo Stato offre l’eutanasia gratuita a chiunque abbia compiuto 75 anni; chi accetta di partecipare al Plan 75 riceve soldi (“alcuni ci si pagano il funerale”) e viene fatto morire in maniera indolore in una struttura attrezzata. Si chiarisce subito che una politica così controversa sia culturalmente accettabile perché il popolo giapponese ha sempre dimostrato grande spirito di sacrificio: acconsentire di morire è persino ammirevole. Questo realistico Giappone, fallimento totale di uno Stato sociale da Paese avanzato, viene raccontato attraverso tre personaggi: un’anziana (interpretata da Baishō Cheiko, attrice giapponese vincitrice del premio alla carriera) che, non trovando più lavoro, accetta di iscriversi al Plan 75, sviluppando però un inatteso e vietatissimo rapporto umano con la sua consulente telefonica di questa edizione); un uomo che lavora per Plan 75 cui viene assegnata la pratica di uno zio che non vede da anni; un’immigrata filippina che accetta un impiego in una struttura dove si praticano le eutanasie.
La politica proposta da Plan 75 sembra ignorare del tutto le singole situazioni, suggerendo che ci sia un momento in cui la vita perda valore. Eppure si tratta di un film di grande umanità, che mantiene sempre un tono contenuto (come nel miglior cinema giapponese): ad apparire inumano è piuttosto lo Stato. Siccome però uno Stato è costituito anche dai suoi abitanti, si comprende che la solidarietà nei confronti dei più deboli o “sacrificabili” debba essere manifestata dalle singole persone.
Opera prima della regista Hayakawa Chie (che ha ottenuto una menzione speciale per la Camera d’Or a Cannes nel 2022 e ha rappresentato il Giappone agli Oscar), Plan 75 esce ora anche in Italia. Colpisce quanto i problemi di bassa natalità, invecchiamento della popolazione e sostenibilità del sistema pensionistico siano molto, troppo simili ai nostri.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.163