Non convince l’opera seconda di Ginevra Elkann, Te l’avevo detto, presentata alla Festa del Cinema di Roma nella sezione “Grand public”. Cast d’eccellenza (Alba Rohrwacher, Danny Huston, Greta Scacchi, Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi, Riccardo Scamarcio) per un film che, dove vuole andare a parare? Cosa vuole dirci? Tutti peccano – Gianna è la “stalker” di una pornostar degli anni Ottanta che le rubò anni prima il marito; il sacerdote Bill cerca di aiutare gli altri a venir fuori dalle dipendenze ma è il primo ad averne; Caterina abbandona figlio e marito perché alcolizzata e via discorrendo – e nessuno sembra riuscire a salvarsi.
Troppe storie verso cui non si riesce a empatizzare e nei confronti delle quali neanche la regista sembra avere pietas. Siamo tutti costretti alla solitudine? I personaggi, in una Roma devastata dal caldo anomalo di dicembre, hanno, di fatti, perso la strada e vagano alla ricerca di qualcosa o di qualcuno. Se troveranno via d’uscita non è dato sapere. Ma viste le premesse, sembrerebbe proprio di no.
La borghesia che Elkann narra non avrebbe scampo. Evidentemente, anzi sicuramente, c’è più umanità sui treni diretti per Foggia. Tuttavia questa è un’altra storia. Scritto insieme a Chiara Barzini e Ilaria Bernardini, prodotto da Lorenzo Mieli e con fotografia di Vladan Radovic e montaggio di Desideria Rayner, il film nasce con tutte le carte in regola per “fare bene”. Eppure, nonostante i richiami altmaniani, non ce la fa: così come il mondo che narra non si prende cura di se stesso, la pellicola non si prende cura dello spettatore.
In balia di mine vaganti sullo schermo, a Te l’avevo detto diamo solo un merito: l’attenzione su Lucio, il cane zoppo che la veterinaria (o chi per lei) vorrebbe far sostituire con un cane più bello e che può far tutto. No, il cane torna in famiglia perché è lì che deve stare: unico, non «invalido». Ebbene, Lucio sembra proprio il solo – fragile tra i fragili – a trovare riparo, la direzione giusta.
Nella sezione Freestyle è, invece, La Storia ad andare in scena. Proiettati in anteprima, sempre alla Festa, i primi due episodi della miniserie Rai, firmata da Francesca Archibugi e sceneggiata insieme a Giulia Calenda, Ilaria Macchia e Francesco Piccolo. Realizzare un’opera di questa portata, adattamento del romanzo di Elsa Morante del 1974, avrebbe potuto essere realmente rischioso. E invece i risultati superano le aspettative. Il racconto riesce ad amalgamare bene la poetica di Morante con le necessarie esigenze e “trovate” televisive. Anche qui i protagonisti (tra gli interpreti principali ci sono Jasmine Trinca, Valerio Mastandrea, Francesco Zenga) sono smarriti, ma lo sono a causa della storia. Quella della “esse” maiuscola, quella dello «scandalo che dura da diecimila anni».
Le leggi razziali, il Secondo conflitto mondiale, la Roma fascista e poi occupata dai nazisti, i bombardamenti, il rastrellamento del ghetto ebraico, i campi di concentramento, la morte, e poi la ricostruzione, il tentativo di mettere insieme i pezzi, superando (ma non dimenticando) le piaghe del passato. Ida (già interpretata da Claudia Cardinale nell’adattamento televisivo di Luigi Comencini del 1986), vedova di origine calabrese con due figli di cui uno nato a seguito di una violenza perpetrata da un soldato tedesco, è al centro di tutto questo. E, come si inizia a intuire dai primi episodi, soffre di epilessia, scambiata al tempo per una forma di isteria, che poi è vera e propria metafora del «grande male» che da individuale non può che diventare universale. Nelle prossime puntate, proiettate su RaiUno probabilmente in primavera, vedremo, dunque, il prosieguo della storia che, come sappiamo, ha a che fare anche con il disagio psichico, i manicomi dell’epoca. In Ida, del resto, «la ragione, che già da sempre faticava tanto a resistere nel suo cervello incapace e pavido, finalmente aveva lasciato dentro di lei la sua presa». Libera, nonostante tutto.
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