«Al Centro Tra Noi la domenica montava il banchetto per esporre le sue creazioni ed era per me sempre un’occasione per scambiare due chiacchere, riannodare i fili spezzati dall’emigrazione attraverso la condivisione dei vissuti».
Chi parla è Alicia Lopes Araújo, la giornalista italiana nata a Capo Verde che ha da poco iniziato un prezioso lavoro di raccolta delle fonti orali per ricostruire una storia di cui va fatto tesoro. Compie infatti sessant’anni il primo fenomeno migratorio su larga scala che l’Italia abbia conosciuto: era il 1963 quando le capoverdiane iniziarono ad arrivare a Roma, dando avvio a una vicenda che ha molto da insegnarci su riconoscimento dell’altro e arricchimento reciproco. Pur essendo anch’essa segnata da dolore e sfruttamento, la storia della migrazione dall’arcipelago africano è tutto sommato una storia positiva, a dimostrazione di una integrazione possibile tra comunità di partenza e comunità di arrivo. È una storia, però, in cui compaiono anche fragilità, disagio e malattia mentale, aspetti, prosegue Araújo, che «ritornano nei racconti delle pioniere, sebbene emerga anche l’ascolto che in tante occasioni queste donne hanno ricevuto».
La ragazza del banchetto di cui sopra è Agata, schizofrenica, che per decenni ha cercato di ricucire la sua esistenza lacerata ricamando e lavorando all’uncinetto. «Arrivata a Roma giovanissima e dotata di un’eleganza innata, amava raccontarmi orgogliosa che i suoi datori di lavoro le dicevano che avrebbe potuto fare la modella. La prima grave crisi l’ebbe un’estate a Cortina, dove si trovava con la famiglia per cui lavorava. Ricoverata in un ospedale ai confini con l’Austria, in quei mesi poté contare sulle visite delle amiche capoverdiane (anche loro a Cortina per lavoro), che, pur di non lasciarla sola, affrontavano la severa polizia di frontiera. La diagnosi di schizofrenia però arriverà molto più tardi; dopo vari ricoveri al San Camillo Forlanini (dove io adolescente andavo a trovarla con mia madre) venne accolta prima da una connazionale e poi da una casa famiglia, grazie al sostegno del movimento Tra Noi» (nato negli anni Settanta a Roma per accompagnare le ragazze migranti). Negli anni Agata è riuscita a mantenersi con quello che riusciva a guadagnare dalla vendita dei suoi lavori.
«Avendo io stessa vissuto sulla pelle la condizione di immigrata, sin dall’infanzia – prosegue Araújo – ho incrociato storie di solitudine estrema, aspettative disattese, esclusione sociale, assenza di reti familiari e affettive; vite messe all’angolo da sofferenze sfociate in somatizzazione e disagio mentale. Maria, Georgina, Giulietta, Agata meritano di essere raccontante, anche perché in loro si celano altrettante storie intrise di solidarietà e generosità».
Maria, ad esempio, da tanti anni vive a Termini. E lì, munita di seggiolina pieghevole per poter comodamente conversare, si reca a farle visita con regolarità Antonita, una psicoterapeuta capoverdiana, giunta a Roma decenni fa per lavorare. Il mercoledì, invece, l’appuntamento è al parco di Casal Palocco con Georgina, a cui porta il pranzo; essendo costei molto esigente, però, la canja (zuppa tradizionale di Capo Verde) non deve essere né di tonno né di pollo (perché «è da poveri»), ma di manzo. Oppure c’è Giulietta, caduta in depressione, che per diverso tempo ha potuto contare sul sostegno dell’ex compagno italiano che le ha lasciato la casa, garantendole 500 euro mensili fino all’arrivo della pensione sociale.
Emigrare non è per tutti, recita un proverbio capoverdiano. «Molte donne hanno sofferto in modo indicibile, manifestando gravi patologie psichiche»: manie di persecuzione, attacchi di panico, esaurimenti, crisi di identità, disadattamento e depersonalizzazione (uno dei sintomi più comuni nei migranti), tutte patologie studiate dall’etnopsichiatria. «Alcune di queste donne sono ancora in Italia, altre sono state riaccompagnate a Capo Verde, altre ancora, pur desiderandolo, hanno rinunciato perché l’arcipelago non garantiva assistenza sanitaria e cure mediche».
«Separazione, viaggio verso l’incognito, arrivo nel Paese di destinazione: questi fattori incidono sulla vita delle migranti facendo saltare tanti equilibri. Ovviamente non esiste un’unica storia di migrazione, ma esistono aspetti comuni per viaggi che sono insieme geografici, mentali ed emotivi. Le ragioni per cui si emigra e il primo impatto con il Paese di accoglienza possono incidere sul percorso di ridefinizione del proprio progetto di vita. Non tutte ne escono vincitrici, non tutte riescono a elaborare il lutto della separazione, a rimodellare il senso della propria esistenza».
Storie di oggi e di ieri. Risalendo agli anni Sessanta, infatti, Araújo ci racconta la vicenda di Rosa, ricoverata al Santa Maria della Pietà. «Da 3 mesi aveva ricevuto il foglio di dimissione dall’ospedale psichiatrico ma non la facevano uscire. Lea Manzone, assistente sociale e una delle prime ragazze italiane di Tra Noi, andò a parlare con il medico, scoprendo che egli si opponeva all’uscita perché Rosa non aveva dove andare. Il consolato portoghese (Capo Verde divenne indipendente solo nel 1975) era disposto a farsene carico, a condizione però che venisse rimpatriata: ma Rosa, prima di salire su un aereo, aveva bisogno di una fase di adattamento post ospedale». C’era poi un altro problema sostanziale. «Al Santa Maria non erano riusciti a fare una diagnosi precisa: non conoscendo il contesto d’origine di Rosa, infatti, non sapevano valutare». Le cose si chiarirono di lì a poco: in casa famiglia ebbe una ricaduta, non era disadattamento ma schizofrenia.
In generale, prosegue Araújo, «si riscontrava un dolore profondo. Spesso queste donne avevano serie crisi isteriche che avvenivano al Tra Noi verso le 18-19 della domenica: quando si avvicinava il momento di rientrare al lavoro alcune, stramazzavano a terra. Erano quasi sempre le stesse, le più fragili: il disadattamento era così forte da risultare incontenibile. Preoccupata, Manzone ne parlò con uno psichiatra del Gemelli. “Vorrei assistere a queste crisi, perché noi le studiamo solo sui libri, non le abbiamo mai viste”, fu la sua risposta».
Il medico di Santa Maria della Pietà, lo psichiatra del Gemelli: colpisce questa consapevolezza di ieri della sanità italiana di essere alle prese con qualcosa di non conosciuto. La giornalista che oggi vuole tessere questa storia di integrazione accidentata ma riuscita: colpisce la voglia di ascoltare e trovare assieme una soluzione. Perché per affrontare disagio mentale e fragilità occorre innanzitutto comprendere la persona.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.162