Una comunità di «cattivi maestri». Una comunità aperta e accogliente, fatta di donne e uomini, in sedia a rotelle e in piedi, bisognosi di aiuto e allo stesso tempo desiderosi di aiutare. Una comunità in grado di intervenire concretamente sia davanti ai problemi individuali dei componenti interni (l’assistenza, la scuola, i costi della salute, i mezzi di trasporto) sia davanti alle questioni sociali che lasciano molti indifferenti (le disabilità, la sofferenza, i minori incarcerati, la pace, la resistenza alle mafie, le dipendenze da alcol e droghe, il bene comune).
È capace di guardare la vita in grande Comunità Progetto Sud, fondata in terra di ‘ndrangheta nel 1976 da don Giacomo Panizza, il prete operaio, emigrato al rovescio (da Brescia a Lamezia Terme), a cui a febbraio scorso il presidente Sergio Mattarella ha conferito l’onorificenza al Merito della Repubblica e che Ombre e Luci aveva già incontrato, raccontando le sue idee e la sua missione. Riguardano, per l’appunto, disabilità, dipendenze e migrazioni gli interventi sociali che, coi suoi centri (alcuni sorti in stabili confiscati ai clan) e ai suoi sportelli, vengono realizzati dalla straordinaria rete guidata dal sacerdote in Calabria e, più in particolare, a Lamezia Terme.
Nata dunque 47 anni fa come gruppo autogestito per offrire soluzioni alternative alla «deportazione» dei calabresi con disabilità negli istituti del nord Italia («Invece di emigrare altrove per fruire dell’assistenza quotidiana o elemosinare i servizi di cui c’era bisogno, li abbiamo creati noi, in Calabria»), la comunità è successivamente cresciuta.
Attualmente è una onlus indipendente che continua ad avere sede a Lamezia, e, oltre a persone con disabilità, sta pure accanto a tossicodipendenti, immigrati, rom, malati di Aids, minori e donne in difficoltà. Progetto Sud si configura, insomma, come un gruppo di gruppi che quotidianamente cerca di dare risposte concrete di inclusione sociale perseguendo giustizia, eguaglianza e legalità.
«In Calabria c’è ancora tanto da fare – spiega don Panizza – abbiamo un quinto dei servizi della Campania e un ventesimo di quelli presenti in Lombardia. Quello che tuttavia è cambiato in tali territori rispetto al passato, è, almeno, un aspetto culturale, legato alla mentalità: non lavoriamo sulle persone con disabilità, lavoriamo con loro».
«Noi di Comunità Progetto Sud – prosegue il sacerdote – abbiamo da subito cercato di far uscire dall’isolamento persone considerate handicappate. Uomini e donne chiusi in casa, emarginati, che uscendo finalmente sono rinati e hanno capito di essere grandi e figli di Dio. Da noi la persona con disabilità sa che l’importante non è tanto ricevere quanto dare. Capire, cioè, che non si è per forza belli, bravi e perfetti ma, come tutti, si hanno capacità e incapacità».
Sul fronte delle disabilità, tra i diversi gruppi di don Panizza (tra cui il centro di riabilitazione, quello psico-educativo per l’autismo e lo sportello informativo guidato da una persona con disabilità) c’è la casa famiglia Dopo di Noi, di cui è responsabile l’educatrice Elvira Benincasa, nata nel 2009 in un edificio confiscato alla mafia per accogliere persone con disabilità fisica o psichica. Persone senza famiglia o con genitori non in grado di prendersene più cura, a cui viene messo a disposizione un servizio residenziale, attivo 24 ore su 24, scandito dal clima familiare e da precise regole di convivenza, rispetto e accoglienza. A tutto ciò si aggiunge il valore delle storie personali degli ospiti, al momento tra i 50 e i 74 anni. Le giornate non vanno avanti come in una bolla: ci sono i piani individuali e i piani terapeutici da rispettare, e ci sono anche le normali routine familiari. C’è chi va in palestra, chi svolge attività sul territorio, chi prepara il pranzo e poi nel pomeriggio va dal parrucchiere, a far visita ai vicini o esce col pullmino attrezzato. Si organizzano anche le vacanze estive, tra le montagne della Sila e il mare della costa ionica oppure tirrenica.
Durante il confinamento per covid la casa famiglia si è reinventata, attivando piani organizzativi e azioni mirate, oltre che alla prevenzione, a fronteggiare la chiusura delle attività esterne. «Dopo di Noi si nutre di rapporti quotidiani col territorio e col quartiere in cui vive – spiega Benincasa –. L’isolamento avrebbe potuto far ripiombare i nostri ospiti nelle condizioni di emarginazione vissute durante la giovinezza o in certi periodi della loro vita. Tuttavia, grazie alle attività di gruppo, alla fantasia e alle parole, l’équipe ha cercato di riempire i vuoti giornalieri dando vita sì al distanziamento fisico, ma mai a quello affettivo o psicologico».
Perché, prosegue don Panizza, «comunità è un termine dal significato variabile. Ogni qualvolta lo usiamo, lo dobbiamo qualificare a seconda che parliamo di una comunità chiusa o aperta, coesa o liquida, separata, mafiosa, religiosa, settaria o inclusiva. Un conto è voler indicare un gruppo paritario, libero e democratico e un altro è voler indicare un luogo in cui le persone vengono ricoverate, isolate e limitate nella libertà. Le une sono realtà promozionali, mentre le altre somigliano a cronicari contenenti “vite di scarto”. Potremmo denominare genericamente comunità un po’ tutti i raggruppamenti sociali. È un dato sociologico sdoganato, che può racchiudere sia territori geografici che ambiti civili aperti o recintati, aggregazioni “naturali” o imposte, sentimenti di appartenenza comune o luoghi virtuali e così via». Ed ecco, lui non ha avuto dubbi: «La Comunità Progetto Sud si è impostata come comunità di accoglienza che pratica la condivisione».
Come a dire, riflettendo sul concetto di vita di comunità, che il progetto, creato e sviluppatosi nelle più profonde periferie, mette in comune, a disposizione di tutti, beni e problemi, relazioni e destini, dando parola e voce agli esclusi, ai fragili, che non vengono più assistiti: e non lo sono perché finalmente protagonisti della loro esistenza. Questa è la forza – il segreto di longevità – di Comunità Progetto Sud: guardare all’altro, agli altri, non come «cittadini incompiuti», ma come persone.
Come detto, oltre ai centri ci sono, quasi a mo’ di scatole cinesi, numerosi progetti all’interno di Comunità Progetto Sud. Da ultimo anche quello, Resto in campo, che cerca concretamente di contrastare il caporalato nelle campagne calabresi, garantendo ai migranti, a chi viene da lontano e non solo, un lavoro regolare, legale, fondato su un contratto vero e serio. Poi l’impegno contro la violenza sulle donne, l’attenzione ai più piccoli, il supporto alle famiglie e ai genitori di bambini per l’appunto fragili che vivono in un territorio in cui i servizi istituzionali sono assenti o carenti. Risponde, insomma, alla pigrizia circostante la rete messa in atto da don Giacomo Panizza che sottolinea un fatto importantissimo. «Scomodare il presente indicando orizzonti, invitare a fare passi in più, non poche volte controcorrente» si può. Si può, in definitiva, creare una comunità, dove lo status quo può venire capovolto, mettendo le persone, in quanto tali, al centro delle cose e del mondo.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.162