Come tanti altri figli di rifugiati della diaspora ucraina, Boris Guziack sognava un’Ucraina finalmente libera. Quando nel 1991 finì l’oppressione sovietica, fece presto ritorno a Lviv per aiutare a ricostruire il suo Paese. Era nato negli Stati Uniti e, dopo aver studiato ad Harvard, era entrato in seminario nel collegio greco ortodosso a Roma. Aveva come padre spirituale Henry Nouwen, il famoso teologo olandese che trascorse dieci anni nella comunità dell’Arche a Toronto; ogni volta che Guziack lo andava a trovare, rimaneva molto colpito dalle qualità umane degli ospiti con disabilità che incontrava. Guziack desiderava ricostruire, in sintonia con il patriarca ucraino Josyf Slipyj, un’università cattolica dove le persone potessero essere formate non più secondo gli schemi imposti dai sovietici, ma nei principi dell’antropologia cattolica. Si rendeva conto però che, per essere un buon professionista, non bastava avere la testa piena di conoscenze, bisognava avere anche il cuore. Ecco perché, fin dall’inizio, il vescovo Guziack cercò di realizzare il sogno di avere persone con disabilità intellettiva al cuore dell’università.
Zenia Kushpeta, un’altra figlia della diaspora, ritornò in Ucraina con il sogno di costruire una realtà simile a quella dell’Arche dove aveva vissuto per anni a Toronto: tenute nascoste per i forti pregiudizi che gravavano su di loro, le persone con disabilità in Ucraina avevano bisogno di un nuovo sguardo capace di lasciarle adempiere alla loro vocazione. Nel 1992, però, era troppo presto per fondare una vera e propria casa, così Kushpeta pensò di avviare una comunità di Fede e Luce e un centro di aiuto per sensibilizzare la società alle persone con disabilità intellettiva.
Le idee di Zenia e di Borys si incontrarono. Borys offrì a Zenia una stanza tra le arcate dell’Università Cattolica per creare il Centro Emmaus e dare spazio alle persone con disabilità. L’azione di Emmaus cominciò con un’attività di assistenza rivolta agli studenti; venivano organizzati gruppi di preghiera che coinvolgevano studenti e persone con disabilità (che chiamiamo “amici”); ci si occupava del sostegno alle famiglie. Pian piano crebbe la presenza di una comunità di persone con disabilità all’interno dell’università, il che si rivelò molto fecondo. I nostri amici possono sconcertare, persino sfidare, in particolare sul piano delle relazioni umane.
La sfiducia condizionava pesantemente la vita dei Paesi ex sovietici, come il nostro: la sola priorità era sopravvivere, qualunque costo rappresentasse per gli altri; il vicino poteva essere un pericolo, poteva tradirti in ogni momento, facendoti bandire dalla società se non eri un homo sovieticus forte e di successo. A Casa Emmaus imparavi invece cosa significasse essere accettati incondizionatamente, chiunque tu fossi. Questa è la dignità universale data da Dio e invocata dall’arcivescovo Guziack.
Ora Emmaus è una casa come quelle dell’Arche dove cinque persone con disabilità vivono insieme a tre giovani assistenti nella residenza per studenti. Nei vari dipartimenti universitari c’è la possibilità di inserimenti lavorativi specifici e, per gli studenti in ambiti sociali, sono previsti tirocini alla scuola di autonomia per persone con disabilità. Il Caffè del Venerdì nella hall universitaria e la liturgia mensile nella cappella sono momenti di aggregazione aperti a tutti, anche per chi vive maggiormente isolato. Agli studenti piace venire a Casa Emmaus, proprio così com’è, per stare con la comunità a bere una tazza di tè, giocare a carte o vedere un film insieme. Perché? Essenzialmente, per quel che si riceve.
Quando arrivi a Casa Emmaus e suoni il campanello, normalmente senti qualcuno correre per il corridoio: la porta si apre e vieni accolto con un grande abbraccio. Paulo ogni volta mi salutava dicendomi: «Oggi sei davvero straordinaria!». E avrebbe detto lo stesso a ogni donna incontrata, pure se per la prima volta, chiunque fosse.
Stando con i nostri amici, gli studenti scoprono un mondo meno complicato. Sono toccati dalla loro semplicità e dalla mancanza di pregiudizio, dalla capacità di amare, di meravigliarsi e, a volte, dalle loro parole di profonda saggezza. Molti di loro vengono per una pausa dagli studi. Uno studente mi ha detto che la sua anima trova riposo a Casa Emmaus: «Mi sento più a mio agio perché non ho bisogno di provare che sono qualcuno». Qualche studente ha deciso di diventare assistente.
Se la filosofia è amore per la conoscenza e per la saggezza, e un modo per comprendere la vita attraverso riflessioni razionali, le persone con disabilità spesso vivono, in loro stesse, una concreta saggezza. Non sarà fatta di conoscenza speculativa, ma rappresenta una sapienza di vita, un sottosopra in grado di sfidarti. Per me la saggezza è basata sulla reale accettazione dell’umanità di ciascuno, significa accettare la propria vulnerabilità. Per quanto forti siamo, abbiamo sempre le debolezze che tendiamo a nascondere come possiamo. In più, tutti andiamo incontro a momenti di fragilità, anche solo con l’età.
Luida ha circa 45 anni. Di solito, quando rientra da un finesettimana a casa di sua zia ed è in ritardo, non avvisa. Una volta ero presente al suo arrivo, quando venne rimproverata da uno degli assistenti di vent’anni più giovane di lei. Luida avrebbe potuto gridargli di rimando «Come mi stai parlando? Potrei essere tua madre!», invece lei chiese scusa, molto dispiaciuta. Ho capito in quel momento che Dio ha creato persone senza orgoglio, il più grande dei peccati, per confondere gli orgogliosi. La saggezza dei nostri amici è anche quella di acconsentire a essere dipendenti, e non solo a livello materiale: per questo la comunità è una scuola di umiltà. Quanta ne occorre quando devi lasciarti lavare e cambiare un pannolone? Siamo solo creature di Dio e, davvero, non possiamo controllare la nostra vita fino alla fine. I nostri amici sono un passo avanti a noi.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.162