Da qualche tempo il cinema italiano ha un’ampia visibilità, lo abbiamo notato anche negli ultimi festival: le produzioni costose a Venezia, i film per il grande pubblico a Roma e il cinema indipendente al 41º Torino Film Festival. L’evento torinese ha sempre dato spazio a documentari o film che mescolano realtà e finzione: appartiene proprio a questo genere Io sono un po’ matto, e tu?, progetto che unisce intento didattico, necessità di autofinanziamento e qualità artistiche. Il regista è Dario D’Ambrosi, noto nel mondo artistico (romano e ormai anche internazionale) come ideatore del Teatro Patologico, un movimento in cui la recitazione è intesa come terapia innovativa per chi abbia un disturbo mentale o una disabilità. Sono in tanti a essere arrivati da lui come malati per poi diventare attori del suo teatro; alcuni di essi sono stati coinvolti in questo progetto in cui D’Ambrosi svela quanto siano diffusi i disturbi mentali tra la popolazione italiana, anche se spesso vengono ignorati, né vengono curati. Tuttavia, per mettere in scena i mali che ci circondano, ha scelto un gruppo di attori professionisti, i quali interagiscono con gli attori del Teatro Patologico in un gioco di specchi che annulla ogni barriera. Nei vari segmenti del film, si affrontano problemi tutt’altro che rari come ludopatia (Claudia Gerini), balbuzie (Vinicio Marchioni), insonnia (Raoul Bova), claustrofobia (Edoardo Leo) e così via; problemi finalmente affrontati, e forse superati, grazie all’aiuto di cosiddetti matti che soccorrono i personaggi. D’Ambrosi stesso ha il coraggio di mettere in scena una sua crisi matrimoniale (Stefania Rocca fa la moglie) causata proprio dalla fatica di voler aiutare i suoi pazienti/attori nonostante ciò abbia pesanti ripercussioni sulla sua vita privata. Ma ne vale la pena, anche perché quei mali non possono essere tenuti nascosti: il film mostra che sono attorno a noi, sono dentro di noi, non dobbiamo fare finta che non esistano.
D’Ambrosi, in un dialogo molto concitato, cita la poeta Alda Merini come esempio di follia non soppressa che alfine ha prodotto arte. Un felice incrocio festivaliero ha messo in programma, nella stessa giornata, anche il film biografico Folle d’amore – Alda Merini di Roberto Faenza, in cui della poeta viene messa in scena l’esperienza di vita, più che l’opera artistica. È un film di Rai Fiction quindi non osa andare oltre una ricostruzione edulcorata in cui le riproduzioni scenografiche sembrano più curate della sceneggiatura: non è abbastanza chiaro né cosa abbia portato Merini in manicomio né come sia stata la sua lunga degenza nei suoi momenti peggiori; laddove sarebbe stato utile immaginare almeno una visione drammaturgica degli eventi, si alza la musica troppo forte a coprire tutto. Vale la pena però lodare Laura Morante che interpreta la poeta dall’uscita dal manicomio fino alla morte: non cerca di farne solo un’imitazione ma prova a restituirne quel misto di dolore, rimpianto, sfrontatezza e ardore artistico ineludibile di chi ha affrontato una vita complicata che forse ne ha contenute troppe.
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