Osservare un bambino che interagisce con un animale è una delle cose più tenere del mondo, perché sembra che parlino la stessa lingua. Come spesso accade ai bambini con disabilità, nel corso della mia infanzia mi sono stati proposti diversi tipi di fisioterapia, tra questi non poteva mancare l’ippoterapia ovvero la terapia più bella del mondo. Per me.
Eppure, l’inizio non era stato entusiasmante. Mi avevano affidato un cavallo baio, molto bello ma anche molto giovane e poco incline alla monotonia dei giri all’interno del maneggio che mi ha disarcionato due volte, senza farsi troppi scrupoli. Dopo la seconda caduta, avevo cominciato ad avere paura, anche se quelle due ore a settimana mi davano l’illusione di avere un cavallo tutto mio, con il quale sognare mille e un’avventura come fossi una principessa delle favole.
Un giorno, però, ho dovuto cambiare centro di ippoterapia e lì ho incontrato il cavallo della mia vita. Si chiamava Rodano e aveva il manto nero come la notte. Era altissimo, quasi 2 metri al garrese e per questo veniva affidato a pochi bambini perché cadere da quella altezza poteva essere un’esperienza veramente poco piacevole. Rodano, però, era un cavallo buono e premuroso, sentivo il suo sguardo che si posava su di me quando arrivavo e la pazienza di aspettare i miei tempi. Del resto per una persona spastica montare su un cavallo di 2 metri non era proprio un’operazione facile, ma lui mi aspettava e io lo ricambiavo sommergendolo di coccole e di attenzioni. Avevo 8-9 anni e in quel periodo buio della mia infanzia in cui pochi bambini venivano alle mie feste e nessuno voleva giocare con me, Rodano era il mio migliore amico.
Avevamo una sintonia unica, percepivamo uno lo stato d’animo dell’altro e ci volevamo bene. Il nostro feeling venne mostrato a tutti il giorno in cui caddi da cavallo. Una sera, infatti, ci fecero fare un esercizio con dei bicchieri di plastica in un punto poco illuminato del recinto e Rodano fu terrorizzato dal rumore della plastica stretta nella mia mano. Il cavallo si imbizzarrì e mi sembrava di stare su un cavallo di uno di quei film western nei quali bisogna domare il selvaggio. Feci una brutta caduta, il cap che mi proteggeva la testa volò nell’angolo opposto del maneggio e io mi spaventai tantissimo, ma lui una volta passata la paura, mi consolò con il suo sguardo con il quale cercava di chiedermi scusa. Ma non c’era niente di cui scusarsi, da quella volta ho imparato che le paure si devono affrontare, perché nella vita si può cadere, l’importante è rialzarsi e ricominciare, guardando sempre avanti.
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 157, 2021
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