«La buona notizia è che qualcosa si muove… che si riesca ad approdare a qualcosa di concreto è ancora una speranza lontana. Intanto si muove l’affetto, con le numerose attestazioni di solidarietà. Le istituzioni sembra abbiano preso a cuore la nostra vicenda, e lo dico con tutta la prudenza necessaria sapendo che ancora non abbiamo una risposta certa. Ci auguriamo che invece di una disfatta questa cosa rappresenti un’opportunità».
All’inizio di questa storia, capirete, c’è stata una brutta notizia. Ma andiamo per gradi. C’è una scuola di vela a Pescia Romana che si chiama Mal di Mare e che è stata fondata nel 1995 da Mauro Pandimiglio. È una scuola aperta in via privilegiata a bambini e giovani fino ai 18 anni che, dal 1999, ha la sua cifra costitutiva nell’inclusione concreta a tutte le differenti abilità: un luogo in cui ognuno trova uno spazio a quel che è, così come è. A parte il non saper nuotare, la partecipazione alle settimane residenziali insieme agli altri non è preclusa da sindromi di vario genere, paralisi cerebrali, disturbi della comunicazione, della relazione e dell’attenzione, disagi sociali o psichiatrici… In un ambiente particolare come la riva del mare – la spiaggia, un confine naturale in cui due mondi si incontrano ed è naturalmente più facile incontrare anche gli altri – si scoprono e imparano cose importanti non solo del mare ma anche di se stessi. Un sostegno che per molti giovani è stato fondamentale soprattutto nel momento delicato della pandemia che ha visto il disagio psicologico dei giovani crescere vertiginosamente.
Ora però, dopo 26 anni di permanenza dei servizi e della foresteria della scuola presso un villaggio turistico adiacente al tratto di spiaggia in concessione per la sua base velica, la proprietà non intende rinnovare l’affitto di quegli spazi alla scuola, lasciando un gigantesco punto interrogativo sul futuro di questa realtà, basata soprattutto sui corsi settimanali residenziali.
Uno scossone cui la scuola non si arrende e che cerca di superare con una richiesta di nuovi spazi. È stata diramata una petizione che, anche grazie all’adesione di tanti amici e partecipanti ai corsi, sembra aver favorito il necessario riscontro da parte degli organi pubblici sollecitati. Speriamo davvero che una realtà preziosa come questa trovi ora nuove possibilità di crescita e che questo passaggio difficile sia uno di quei «naufragi necessari… momenti di passaggio, muta necessaria» propri della vita di cui Mauro Pandimiglio (fondatore della scuola, 70 anni, pedagogista e navigatore, due figlie di cui una con esiti di un’anossia cerebrale alla nascita) parla nel ricco Modus navigandi (Hoepli, 2018), dove descrive l’esperienza pienamente umana vissuta alla scuola vela Mal di Mare nelle sue fondamenta e valenze pedagogiche, antropologiche, filosofiche, psicologiche, delle neuroscienze e letterarie legate al mare. Lo abbiamo intervistato per capire meglio le peculiarità dell’approccio Mal di Mare.
Come è nata la scuola vela a Pescia Romana?
Mal di mare è nata da un gruppo di papà (una volta tanto combinano qualcosa di buono!) che per un certo periodo di tempo ha portato i figli in barca. Avevo un locale che si chiamava proprio Mal di mare, un posto per marinai a Trastevere; però la mia idea era quella di stare sul mare… si chiuse quell’attività e aprimmo la scuola di vela di Pescia Romana, distinguendo un segmento preciso per i partecipanti dai 6 ai 18 anni. Man mano, una serie di occasioni e storie, alcune prese e alcune perse, hanno fatto sì che Mal di Mare crescesse. Il momento cardine è stato però il passaggio con la disabilità: all’inizio era una scuola residenziale come altre, mi spostavo tra le scuole di Caprera e Velamare per capire come fare. Aprire una scuola mare residenziale aperta alle disabilità (credo siamo stati tra i primi a farlo) ci ha messo su un altro piano, di grande fertilità e di cambiamento. Abbiamo avuto fortune come l’incontro con Giovanni Bollea: ricordo i pomeriggi a casa sua per lunghe chiacchierate dal valore inestimabile, alle quali ancora oggi mi affido. Altro tassello fondamentale è stata l’iniziativa sperimentale di Handycup, una regata in cui in ogni equipaggio doveva esserci un ragazzo in difficoltà. Fin dalla prima edizione del 2001 parteciparono 70 barche, lasciandoci esterrefatti! L’iniziativa pose le basi per l’Unione Italiana della Vela Solidale nello Yacht Club Italiano, costituita nel 2003 con Exodus di don Mazzi e altre realtà. Passando per Bruxelles, al parlamento europeo con 55 associazioni, l’ultimo episodio di Handycup si è svolto con il meeting di Malta nel 2011, in un momento in cui proprio Malta e l’Italia bisticciavano sulla questione dei migranti, rimpallandosi le responsabilità: venimmo perfino nominati su documenti ufficiali dei capi di Stato per aver contribuito a rimettere insieme i cocci della situazione.
Mal di mare è un nome che evoca appositamente sia il disagio che la nostalgia del mare?
Ho sempre pensato che i nomi si cerchino ma anche che ti vengano incontro: alcune parti di questo nome le abbiamo scoperte dopo. Volevamo che il nome rimandasse alla nostalgia per i luoghi sconfinati (come avviene per il mal d’Africa) e che allo stesso tempo orecchiasse al disagio, in un modo quasi ironico. Nel tempo abbiamo scoperto quanto invece fosse fertile il naufragio nella vita di ciascuno di noi, proprio come nell’occasione che stiamo ora vivendo.
Chi viene nella vostra scuola?
I corsi sono aperti a bambini e giovani di qualunque provenienza, genere, abilità, estrazione. Quando abbiamo cominciato a incentivare il progetto Navigar m’è dolce con le scuole, abbiamo raccolto così tante adesioni che è diventato il 60% dell’attività totale. Gli insegnanti che accompagnavano le classi rimanevano incuriositi dal nostro approccio pedagogico e abbiamo cominciato a lavorare anche con loro. Poco prima della pandemia avevamo cominciato a farlo anche con i genitori, un discorso che sarebbe importantissimo mantenere proprio perché ci occupiamo di ragazzi. Ci siamo resi conto, infatti, che quello che essenzialmente facevamo era un’educazione sentimentale, al sentire, quando invece i ragazzi sono condizionati da un’educazione al capire. Che va presa con attenzione perché ha derive sulle competenze, sul sapere, sulla divisione del lavoro che hanno fatto fin troppi guai. I genitori hanno bisogno (abbiamo, come genitori noi stessi e educatori!) di una rieducazione al sentire. Non si tratta di “formare” ma di ricercare insieme dei valori che hanno a che vedere con il sentire e l’ascolto. Tutto questo nella convinzione che il mare sia elemento cardine e maestro. Abbiamo dato noi forma alla terra come luogo del fare per costruire, per l’essere e il logos. Il mare, inevitabilmente estromesso e considerato ostacolo, diviene parte fertile, luogo straordinario per incontrare l’altro e ascoltarci. Quello che si insegna normalmente è a dire e trovare soluzioni; in realtà i ragazzi hanno bisogno dell’opposto: trovare domande, ascolto. Se io sono ascoltato, imparo ad ascoltare; se non lo sono, non imparerò mai a farlo.
Leggendo Modus navigandi colpisce il metodo pedagogico della scuola che non intende annullare le differenze ma vuole far emergere le unicità, insieme agli altri: come si combinano queste dimensioni?
L’unicità nasce dal fatto di dire non siamo scarti, parti residuali della società, anzi. C’è una ricchezza straordinaria e, soprattutto, il disabile è una persona. Se io dico che la disabilità non esiste mi prendono per matto, ma è così. L’abbiamo inventata noi. C’è un danno. Cerebrale? Psichiatrico? Sociale? Sono danni, non di per sé fanno il disabile. Nessuno che ha un danno si vive come disabile. Poi c’è il rapporto tra questo danno e la società. Nel momento in cui il danno entra nella società nasce la difficoltà, lì diventa disabile, non si dice che la società non è in grado di integrarlo ma che è colpa sua, che è sfortunato, poverello, ci dispiace… È un meccanismo perverso. Dobbiamo rimettere le cose a posto: la disabilità ve la tenete, l’avete inventata voi. Ormai il concetto di disabile e danno sono la stessa cosa e invece sono due cose diverse. La disabilità avviene in una relazione, il danno nella fisicità della carne. Noi viviamo relazioni di disabilità, di esclusione per l’altro. Che vuol dire anche esclusione fatta da un approccio paternalistico per cui io so qual è il tuo bene, so cosa ti serve adesso e come pedagogista, psicologo, educatore… “ti aggiusto io”.
L’esperienza vissuta a Mal di Mare si riporta a casa?
Come tutti facciamo errori, inciampi, ma c’è un grande spazio di affetto che i ragazzi si portano dietro. Abbiamo tantissimi giovani che ci dicono di aver trovato in Mal di Mare una seconda famiglia: i ragazzi hanno bisogno di ritrovare un mondo che sia affettivo. E noi puntiamo molto su questo. Ci siamo smarcati subito dalla tecnica, non ci interessa la prestazione eroica: ci interessa la relazione umana e in tanti hanno trovato di che nutrirsi. Ahimè, l’incomprensione e la freddezza che ci sono nella nostra società, ci sono anche nella famiglia: manca il tempo di ascoltare, alcune situazioni sono complicate e dolorose. Quando un ragazzo o ragazza trovano un professore che li ascolta o una scuola vela dove possono stare dalla mattina alla sera a contatto con la natura, con maestri con cui possono parlare, in cui trovare un appoggio fraterno, e capiscono che la vela non è una messa alla prova per vedere se sei bravo… perché sei già bravo, sei già con noi… vuol dire tanto per quel ragazzo o quella ragazza. Da noi, la messa alla prova viene bandita, o almeno diminuita: certo, anche noi siamo esseri umani e siamo condizionati. Ma facendo parecchia formazione e ricerca, cerchiamo di rimanere attenti. Trovare un posto dove invece di vedere se vali, vali già quando arrivi, fa la differenza.
Un luogo dove finalmente si impara con gioia… Perché nella nostra esperienza è così difficile coniugare l’apprendimento con la felicità?
Il problema dell’apprendimento è che non è possibile far passare qualcosa semplicemente perché è importante. Viene semplicemente incollata. Può passare attraverso una relazione fiduciaria, non perché io so e tu no ma soprattutto perché io sto con te nel conoscere le cose, le conosciamo insieme. Se io mi reputo qualcuno che già sa e l’altro qualcuno che non sa, ho creato una differenza che diventa un abisso e l’altro non sarà in sintonia con me. Lo fa perché è obbligato, perché se no prende un brutto voto, lo fa perché va incontro a tremila fastidi, ma non perché gli piace o perché lo rende felice. Dobbiamo partire da questo punto come, per esempio, quando discutiamo con qualcuno: qual è la cosa più importante, cosa voglio dalla vita? Aver ragione o essere felice? La scuola deve rispondere alla stessa domanda: essere qualcuno che sa contro chi non sa, per avere cosa? Un qualche privilegio, lavoro, fortuna? O voglio vivere felice? Noi crediamo che sia meglio vivere felice. E che felicemente si sappia.
Si trae sempre beneficio da un’esperienza come la vostra?
Non riusciamo a essere utili a tutti, altrimenti saremmo in un altro mondo. Ci auguriamo di fare meglio noi stessi, allo stesso tempo essere sempre meno noi e sempre più insieme, in un processo inarrestabile che ci porta ogni giorno a capire come essere con gli altri, anche e soprattutto sbagliando. Pensiamo che un ragazzo, perché vada bene, non debba fare errori; ci hanno insegnato a dividere il bene dal male… sembra funzionare bene: impara a riconoscerlo e toglilo dalla vita. Ma è una corbelleria… Il male è una costituente del bene, non puoi scinderlo e toglierlo. Apprendiamo molto più dagli errori che dalle cose che facciamo bene. Bisogna far capire questo a un bambino: perfeziona l’errore! Diceva Brecht: “Sto lavorando intensamente per compiere il mio prossimo errore”. Abbiamo il coraggio di dirlo? E che una società può fondarsi su questi presupposti? Probabilmente ancora no.
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