«Da anni viviamo accanto a persone che con la loro fragilità ci hanno insegnato ad avere verso gli altri uno sguardo diverso; loro ci hanno guidato alla ricerca non del merito della persona, ma dell’accoglienza di ognuno per quello che è, diverso da noi, certamente, difficile da capire… Ci hanno insegnato a non fermarci alle apparenze, a schierarci in difesa della comprensione e del dialogo, a diffidare dei pregiudizi», scriveva Mariangela Bertolini nel 2011.
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Dima è senz’altro uno di questi. Un ragazzo russo incontrato da Stefano Marchetti (su OL n.129) nel pellegrinaggio di dieci anni fa quando l’Ucraina era stata scelta come unica meta possibile per celebrare i quarant’anni di Fede e Luce: benché estraneo alla provincia che organizzava l’evento, era l’unico Paese per cui le diverse nazionalità partecipanti non avrebbero rappresentato una difficoltà. Russi, cechi, lituani, georgiani e slovacchi nelle loro declinazioni religiose – che andavano dal cristianesimo protestante al cattolicesimo romano, passando per varie chiese ortodosse – avevano trovato un’oasi di pace nella città di Lviv (Leopoli). In quell’occasione Dima, di tradizione ortodossa, non aveva proprio capito perché dovesse rimanere fuori dalla celebrazione eucaristica cattolica. Il suo cuore era naturalmente aperto al confronto e alla pace, effettivamente «chiamato a essere – come recita la Charta di Fede e Luce – fonte di grazia e di pace per l’intera comunità, e anche per le Chiese e per tutta l’umanità».
Non sappiamo nulla di come stia oggi Dima. Sappiamo però quel che si sta vivendo nella terra di quel pellegrinaggio, sappiamo di tanti russi che non sono Putin, sentiamo il grido di pace che sembra rimbombare a vuoto. All’inizio di questa quaresima, il nostro pensiero rimane rivolto e vicino a tutti i fragili innocenti che, insieme a Dima, certamente faranno le spese del conflitto in corso, da entrambe le parti.
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Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 157, 2021
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