John, un uomo con la sindrome di Down, aspettava fuori da un cimitero. Gli era stato detto che la mamma era partita, e lui la stava aspettando. La verità era che la mamma era morta ma nessuno aveva avuto il coraggio di dirglielo. Di conseguenza, non aveva perso solo la mamma ma anche la possibilità di capire perché non la vedeva più. La sua solitudine non aveva modo di essere espressa, ma si risolveva soltanto in un’eterna attesa.

Gli ultimi venticinque anni hanno visto tanti cambiamenti riguardo l’appartenenza delle persone con disabilità alla vita e alla missione della Chiesa. Le loro storie e la loro voce hanno tracciato uno spostamento nel pensiero e nella pratica del cristianesimo, da una posizione di esclusione e marginalità a un riconoscimento del suo valore e identità. Sono emersi molti interrogativi: «Perché le persone disabili sono percepite negativamente? Come mai mancano dalle parrocchie? Cosa direbbe Gesù della loro scarsa presenza?».

La Chiesa ha iniziato ad ascoltare l’esperienza della persona con disabilità. Tuttavia, nel percorso della vita parrocchiale, catechisti, genitori e sacerdoti esprimono difficoltà quando si trovano a dover affrontare tematiche emotivamente e cognitivamente difficili, come un trauma, la guerra, la pandemia e la morte. La difficoltà cresce quando questi argomenti devono essere resi accessibili a una persona che ha una diversità nell’elaborare l’informazione e nel comunicare. È ora che le parrocchie superino questa barriera comunicativa perché, di certo, tutte le persone nate, muoiono, e tutti dovrebbero poter affrontare la morte di un caro (o la propria) con dignità e amore. La storia di John ci suggerisce che la persona con una disabilità può soffrire di più se la comunità che la circonda non ne riconosce la possibilità di provare dolore di fronte alla morte di una persona cara. È necessario essere considerati, accolti e accompagnati in quelle situazioni che ciascuno di noi dovrà inevitabilmente affrontare: è anche in questi momenti di estrema sofferenza che, tramite esperienze empatiche, possiamo imparare a stare insieme.

«O tutti o nessuno», ci ricordava Papa Francesco nel 2016 a un convegno rivolto all’incontro con persone con disabilità a proposito della loro appartenenza alla comunità cristiana. Perché davvero sia possibile per tutti, vorremmo suggerire dei cambiamenti nelle pratiche pastorali: non etichettare la persona solo come disabile, riconoscere e usare il suo «modo creativo» di comunicare e dare la necessaria attenzione allo sviluppo di metodi che possano accompagnare davvero tutti a vivere e ad avvicinarsi alla morte o al morire.

Sarà importante non lasciare sola la persona ma incontrarla e accompagnarla in un percorso da specificare insieme a lei, ai suoi familiari o conviventi. Ad esempio, cominciando a scoprire come comunica e cosa le piace. Nella nostra esperienza abbiamo utilizzato metodi alternativi alla comunicazione verbale, creativi e catechetici, che sfruttano musiche e disegni accompagnati da immagini in comunicazione aumentativa alternativa (se ne possono vedere alcuni esempi, utilizzati anche durante la pandemia, in lingua inglese sul sito kairosfrum.org). Bisogna usare parole chiare e non vaghe, e fare esplicito riferimento alla parola morte. Insieme si possono esplorare ricordi, rivisitare luoghi o oggetti significativi, rileggere alcuni brani del Vangelo o della Bibbia, pregare con la propria comunità e dare così forza al valore della storia della persona cara. Il percorso che si svolgerà sarà un importante pezzo anche della vita comunitaria parrocchiale (approfondimenti sull’approccio si possono trovare negli Atti del Convegno Catechesi e persone con disabilità, Scintilla Nova, 2018).

La teologia cristiana ci ricorda che «ogni persona ha una sua intrinseca dignità e pari valore. Ciò non muta in base alle caratteristiche, alle capacità o al livello della qualità della vita individuali» e come persone di fede sappiamo nel profondo che ogni persona riflette l’immagine di Dio.

Per Giovanni Paolo II ogni persona «è stata creata per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio e così esserne segno». Ogni persona che nasce, portando il respiro di Dio al mondo, morirà e in questo senso siamo tutti uguali. Se presenti a questo respiro, nella vita e nella morte, siamo presenti a un incontro con Dio, a prescindere dalle nostre capacità o modi di comprendere. La spiritualità, infatti, va considerata «senso dell’essere» piuttosto che «azione della mente», un «essere presenti e attenti l’uno all’altro, incontro reale e autentico». Quando una persona con una disabilità viene esclusa, neghiamo la sua dignità davanti a Dio. Invece per stare di fronte alla natura singolare, particolare e complessa di una persona non è necessario determinare come pensa o come parla, o se è in grado di capire. Piuttosto, è come essere davanti a un tramonto, con tutti i suoi colori particolari e universali: non è necessario nominarli ciascuno, basta essere presenti alla bellezza di quel tramonto. Questa è l’opportunità che abbiamo, scegliendo di essere vicini e accompagnare: essere presenti alla bellezza gli uni degli altri, nella nostra vita, anche quando giunge al suo termine.

Cristina Cangemi e Matteo Tobanelli sono ricercatori in studi di spiritualità e religiosità delle persone con disabilità intellettiva

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 158, 2021

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Affrontare la perdita ultima modifica: 2022-08-05T11:24:10+00:00 da Cristina Cangemi Matteo Tobanelli

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