«Siamo ancora tutti un po’ preoccupati, le cose non sembrano andare bene, lavoriamo tra disinformazione e drammi e, in tutto questo, le persone con disabilità sono abbastanza non pensate: bisogna riconoscere che sono state brave, pur pagando un alto prezzo». La preoccupazione che esprime don Luigi d’Errico risponde a una vocazione verso i più fragili che abbiamo avuto la gioia di vedere all’opera. Tante le attese che ha saputo riconoscere, incontrare e non lasciare sole, insieme alla sua parrocchia: una piccola realtà dalle grandi prospettive, un esempio da seguire.
Per questo – insieme ad altre 36 persone che si sono come lui distinte per l’impegno civile quotidiano, la dedizione al bene comune e la testimonianza dei valori repubblicani – il presidente Mattarella lo ha appena insignito Commendatore dell’Ordine al Merito Civile della Repubblica italiana «per il suo quotidiano impegno a favore di una politica di reale inclusione delle persone con disabilità e per il contrasto alla povertà e marginalità sociale».
Don Luigi d’Errico, 58 anni, dal 2007 è parroco della chiesa dei Santi Martiri d’Uganda nel quartiere Ardeatino di Roma, dove da tempo è stata avviata un’esperienza esemplare di catechesi per e con le persone con disabilità. Arrivato nella capitale dopo diversi anni in Svizzera, nel 2013 don Luigi raccontava a Ombre e Luci del suo impegno nel cercare tutti: «Gesù dice che dove c’è il povero c’è Dio. Non posso non andare a cercarlo e non impegnarmi per raggiungerlo… Se l’invito non fosse per tutti non saremmo più chiesa cattolica, davvero universale. Poi ognuno sarà libero di accettare o no».
Nel cercare le persone più in difficoltà (e, come aggiunge la motivazione del Quirinale, anche coloro che vivono seri disagi sociali come donne maltrattate con i loro figli o i nuclei familiari indigenti e senza casa) una comunità intera lo ha seguito: c’è voluta pazienza – ci racconta il sacerdote – ma è quella «che ritroviamo in ogni famiglia quando educa i propri figli. A volte anche un po’ di fermezza; quando qualcuno veniva a lamentarsi delle voci alte di alcuni ragazzi autistici che partecipavano all’eucaristia domenicale rispondevo che ciascuno era libero di partecipare alle messe nelle parrocchie vicine se cercava raccoglimento e silenzio, ma che certo non potevo escludere nessuno come mi si stava invece chiedendo».
E sappiamo che l’esempio del celebrante è il primo indispensabile passo perché l’accoglienza divenga comunitaria. I frutti si vedono: la comunità «è diventata ancora più brava di me». Oggi tanti giovani e adulti partecipano consapevoli alla vita della parrocchia dove, prima tra tante, comparvero cartelli con i disegni in comunicazione alternativa aumentativa (CAA) per facilitare l’ambientamento di chi era ed è più in difficoltà. La chiesa è così divenuta un luogo davvero accogliente in cui ognuno può scegliere il posto che preferisce, come tutti. Don Luigi ricorda i primi tempi del lockdown del marzo 2020, quando alcune indicazioni invitavano a disporre posti particolari per le persone con disabilità in chiesa: «Sapevano molto di spazio separato. Così come quelle delle autorità civili che chiedevano di apporre un segno di riconoscimento ai portatori di una disabilità: piccoli segni che indicano quanto ancora sia vivo il pregiudizio sulla disabilità, da distinguere e mantenere separata. In questo anche nella nostra Chiesa c’è ancora tanto da fare: la vera rivoluzione non sta tanto nello scrivere fratelli e sorelle nel nuovo messale, ma di esserlo veramente».
L’onorificenza ha messo in evidenza la capacità del sacerdote di aver saputo creare una rete molto attiva: il suo impegno religioso e civile fa emergere quella dimensione politica evocata dalla motivazione del Quirinale, che è ricerca di buone e durature risposte per i tanti bisogni. «Le persone sono brave e capaci. I progetti di solidarietà non possono essere legati al solo parroco di turno che, si sa, non sarà lì per sempre. Come parrocchia intitolata ai Martiri d’Uganda, siamo legati a quello Stato africano per sostenere alcune attività. I gruppi che si recano lì ogni anno (solo nel 2020 non siamo riusciti ad andare) hanno piena responsabilità di quel che pensano sia necessario fare. Così come qui a Roma a coordinare la casa famiglia per donne vittime di maltrattamenti con i loro figli, Il rifugio di Agar, c’è una donna con figlio, coadiuvata dalla parrocchia». Un circolo virtuoso che comprende la distribuzione di alimenti ai senza tetto e alle famiglie in difficoltà («come in tante altre parrocchie siamo passati da 40 a 400 famiglie da sostenere con i pacchi alimentari»), la vicinanza agli anziani con un servizio di assistenza domiciliare, il doposcuola e la rete con altre parrocchie: «da soli non si va lontano… Con altre otto parrocchie abbiamo preso in gestione una casa per accogliere famiglie indigenti, Casa Betlemme, che rimangono senza un tetto e a cui le scelte e i tempi dell’amministrazione pubblica non forniscono alcuna alternativa in tempi ragionevoli. Se dal punto di vista civile abbiamo raggiunto traguardi importanti per l’inclusione (anche se tante cose devono migliorare – come la cronica mancanza di insegnanti di sostegno, di certo non provocata dal covid-19) tante difficoltà sono venute a galla con la pandemia. La Chiesa deve farsi vicina a chi è in difficoltà, ora che ce n’è tanto bisogno. Bisogna ammettere che si potrebbe far di più. Il richiamo di Papa Francesco di qualche anno fa per mettere a disposizione parte dei beni ecclesiastici per le necessità del popolo di Dio è stato fortemente disatteso: come non ricordare che tanti beni vengono dalla carità del popolo di Dio e per la carità dovrebbero essere utilizzati? Perché finiscono per essere dirottati altrove? La proprietà va certamente tutelata, siamo pronti a contribuire per l’utilizzo. Certi spazi dentro la città, adesso vuoti o utilizzati per altro, sarebbero ottime soluzioni per costruire alternative per il lavoro protetto o per il dopo di noi. Non è giusto che le persone con disabilità vivano lontane dai luoghi dove sono cresciute quando i loro genitori non possono più prendersi cura di loro».
Che cosa significa un’onorificenza come questa? Per don Luigi è un’occasione per sottolineare quale maggiore attenzione deve connotare il nostro sguardo, pubblico e privato sulle persone con disabilità. Occasione di fare attenzione ai tanti pregiudizi che incasellano l’esperienza della disabilità e che quotidianamente appesantiscono una condizione che può e deve trovare nuovi spazi di normalità. Così don Luigi sottolinea l’importanza della scelta che ha fatto la Cei di organizzare, al pari degli altri servizi, un ufficio dedicato alla Pastorale della persona con disabilità nella sua interezza: «Prima c’era un settore dell’Ufficio Catechistico Nazionale dedicato all’Iniziazione Cristiana delle persone con disabilità che però riguarda solo una parte della vita di una persona. Era importante riconoscere che sono tanti gli aspetti in cui la Chiesa può dare e dà risposte ai bisogni che emergono nella vita di una persona con disabilità. A dirigerlo è una donna, suor Veronica Donatello, che coordina una rete molto attiva nel seguire e sostenere le tante esperienze di matrice cristiana legate alla disabilità, di cui anch’io faccio parte. In questo periodo suor Veronica ha cercato di tenere vivi i contatti che inevitabilmente sembravano allentarsi. Tante persone con disabilità si sono ammalate e hanno perso la vita… ma sembra interessare a pochi».
Don Luigi è anche referente per la disabilità nella diocesi di Roma: ma se prima lavorava all’interno dell’Ufficio catechistico, ora la sua carica è stata spostata nell’ambito della Pastorale sanitaria. Un cambiamento che rischia di far scomparire la disabilità dietro la malattia… «Intanto confidiamo nel vescovo referente di quel settore, don Paolo Ricciardi, che sappiamo essere molto sensibile ai temi della fragilità». Ma certo non è una decisione che lascia tranquilli: il ragionamento che abbiamo fatto per i parroci, e cioè che non staranno in quel ruolo per sempre, vale anche qui, e forse sarebbe stata più lungimirante una scelta come quella fatta in CEI.
Per ora i drammi vissuti a causa del covid dominano su altre riflessioni: i lutti («Stiamo celebrando almeno il doppio dei funerali») come quello per la morte di una ragazza di 30 anni che non ha trovato posto per tre giorni in un ospedale; la preoccupazione per la situazione sociale di cui ancora dobbiamo vedere gli esiti («La morte di una parrocchiana di 90 anni lascia senza alcun sostegno un figlio di 55 che faceva il cuoco e ha perso il lavoro»).
«La paura c’è ma è inutile colpevolizzare. Dobbiamo esser prudenti, non congelati: la politica, con la complicità di un’informazione poco corretta, deve governare la nave in tempesta, come ha sottolineato il Papa a suo tempo – ragionevole oltre che cristiano – e non perder tempo con i suoi teatrini. Intanto per quel che possiamo fare noi, nella prudenza indispensabile, rimaniamo vicini: la parrocchia ha lasciato aperti i suoi spazi alle persone con disabilità o ai bambini che avevano bisogno di luoghi alternativi alla casa e ai centri che non ha potuto frequentare. Nella diversità di approcci si può cercare di andar accordo almeno come persone di buona volontà».
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